Il Silenzio e la Parola

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di Tina Fusco

Il silenzio, non meno della parola, costituisce un potente strumento di comunicazione soprattutto quando di parole se ne usano troppe e l’unico modo che si ha per far sentire la propria voce è tacere. Di tutte le forme di silenzio di cui ho fatto esperienza, l’unica che facevo fatica ad accettare era il silenzio “punitivo”, quel silenzio pericoloso e tagliente che in una relazione affettiva uccide e umilia. Il silenzio di chi oppone alle tue domande il sottrarsi, il ritirarsi, il non dire accompagnato, come spesso accade, dal non guardare, dal non toccare l’altro.

Recentemente mi è capitato di leggere un articolo sul silenzio aggressivo e manipolativo: il silenzio di chi, sottraendosi alla discussione, tacendo, abbandonando la scena senza farsi più sentire, mortifica l’altro lasciandogli sensi di colpa e frustrazione. Ne ho sorriso, sommessamente. Discretamente. Esiste un altro Silenzio che è quello insegnato dalle grandi tradizioni spirituali. Un Silenzio terreno di pratica feconda, foriero di intuizioni su noi stessi e sul senso della nostra vita. Un Silenzio come luogo privilegiato di ascolto della voce di Dio o della Vita, che ci indica la direzione e la strada, il sentiero e la via. Quel Silenzio insegna e non punisce.

Fortifica e non mortifica. Ma, senza andare troppo lontano o troppo in alto, pur rimanendo su di un piano prettamente psicologico e non trascendente, è possibile dare al silenzio di chi deliberatamente sceglie di non dialogare un significato diverso dal semplice ricatto emotivo? “Non ti dico, non ti parlo, così tu ti senti in colpa; mi sottraggo a te, ti allontano, ti respingo”. Un altro Silenzio è possibile? Credo di sì. Spostare, come credo sia giusto fare, il punto di vista dall’altro a noi ci consente di sentire quel silenzio diversamente. Non come un’aggressione, ma come una invocazione. Non come un’umiliazione, ma come una richiesta malcelata e mal espressa di attenzione. Se è vero che nella comunicazione è possibile sempre tentare di connetterci empaticamente al cuore dei bisogni dell’altro (Marshall B. Rosenberg), senza trascurare ovviamente i nostri, è possibile chiederci “cosa sta cercando di dirci l’altro attraverso il suo silenzio?” piuttosto che pensare “ci sta umiliando, ci sta mortificando, ci sta allontanando, ci sta respingendo”; possiamo chiederci “cosa vuole dirci, anche se in maniera sbagliata, che non riesce ad esprimere diversamente?”.

Scopriremo che forse l’altro vuole dirci che non sa assecondare le nostre richieste, che non sa sostenere le nostre incalzanti domande o semplicemente che non è quello il momento per lui per affrontare una discussione. Se abbandoniamo tutte le “nostre” idee preconcette sul silenzio altrui e ci mettiamo in ascolto del silenzio dell’altro, in paziente attesa, forse qualcosa cambierà, prima di tutto in noi.

Fosse anche solo la nostra irrequieta ed insistente volontà di ricevere risposte a tutti i costi. Connessi al cuore dell’altro, possiamo accogliere il suo disagio a verbalizzare ciò che sente e comprendere che anche il silenzio dei musi lunghi, se all’inizio ci indispettisce e avvilisce, può poi costituire luogo di incontro da cui rispettosamente ricominciare. Nell’ambito delle relazioni affettive, soprattutto tra partners, accade spesso che una forte diversità caratteriale sia accompagnata da un profondo divario nei modi di comunicare. Ciò non vuol dire affatto che chi rimane in silenzio abbia scelto la via dell’indifferenza o dell’umiliazione. Nè tantomeno quella della fuga.

Accade sempre più spesso di sentir parlare o raccontare di coppie che si lasciano senza troppe parole, senza rispetto, con un messaggio o una telefonata, senza guardarsi in viso. Premesso che se durante la vita della relazione non esisteva dialogo a nessun livello, non vi è da sorprendersi se anche nella fase finale non si riescano a trovare parole per lasciarsi con rispetto, credo che laddove invece tra le parti ci sia stato un forte legame basato sulla parola e sul contatto corporeo ed emozionale, lasciarsi con il silenzio può non essere una disfatta. Laddove i corpi hanno sempre dialogato anche oltre e meglio delle parole, il silenzio che separa prima o poi restituirà il rispetto e la stima che sembravano perduti, anche se questo non servirà a far rifiorire l’amore. Chi ci lascia senza parole, a meno che non sia un vigliacco, ma questo lo si apprende mentre si sta insieme non mentre ci si perde, lo fa per comunicarci qualcosa.

Fosse anche la sua paura o incapacità di mettersi a nudo, di tentare di salvare qualcosa, di combattere dalla nostra stessa parte, con noi o per noi. O addirittura vuole solo comunicarci un forte rispetto, che noi, in quel momento, non siamo capaci di interpretare. Già, rispetto per ciò che forse non abbiamo voluto vedere e comprendere quando ancora ci parlava. Non esistono fuggitivi per scelta. Chi fugge lo fa per difesa. Chi fugge vive una ferita che nemmeno lui ha compreso e che non ancora ha imparato a curare (Lise Bourbeau). Chi fugge e rifiuta, in realtà rifiuta se stesso, rifiuta l’altro e la sua potenziale idoneità a fargli rivivere disagi non guariti che non saprebbe come affrontare.

La strategia migliore verso chi tace e fugge è lasciarlo andare, lasciarlo stare, lasciarlo essere ciò che è, senza giudicare, senza condannare, accompagnandolo col cuore e augurandogli di incontrare sul suo cammino chi meglio saprà fargli da specchio mostrandogli la profondità della sua ferita e insegnandogli ad accettarla, ad amarla, a trasformarla. Chi nel silenzio ci parla, nel silenzio si ascolta. E nel silenzio si possono dire molte cose. Soprattutto, si può dire che ci siamo per lui e con lui, ci siamo ancora, in presenza ed energia. Non esistono silenzi punitivi. Esiste il Silenzio che può essere Parola. E la Parola silenziosa va ascoltata e compresa; accettata ed amata; custodita e meditata.

E nel Silenzio, anche a distanza di tempo e di spazio, ci si può sempre (re)incontrare. Quando nel silenzio dell’altro, seppur accompagnato da distanza, ci giunge pace; quando nonostante il muro interposto, restiamo in pace, lì, proprio lì c’è già il seme di una nuova parola che verrà.

 

Bibliografia essenziale Marshall B. Rosenberg, Essere me, amare te, ed. Esserci Lise Bourbeau,

Le 5 ferite e come guarirle, ed. Amrita

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