Il Vesuvio brucia da molto tempo prima che arrivassero le fiamme.

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di Elio Goka

Se uno dei luoghi più antichi ed emblematici della storia della civiltà occidentale è sistematicamente al centro delle strategie politiche e militari del potere costituito e della criminalità organizzata, allora quella civiltà da cui deriva è inesorabilmente condotta sull’orlo del baratro. I roghi che hanno distrutto parte della vegetazione sono un segno chiaro di un’azione militare da parte di una piromania strategica, eseguita secondo un protocollo che potrebbe rispondere a degli scopi precisi. Pensare che quanto stia accadendo e sia accaduto in Campania, in Sicilia e nella altre regioni dove gli incendi vengono appiccati da una mano criminale sia l’unica forma condannabile di manomissione alla natura è un errore.

Il Vesuvio, inteso come luogo di devozione umana, è stato a lungo violato dalla speculazione edilizia, che in Campania è uno dei crimini più atroci commessi contro quello che è tra i territori più floridi e incantevoli del mondo, da un riconoscimento tardivo, poco più di vent’anni fa, di Parco nazionale, da una gestione ambigua, confusionaria e, non mancano anche qui i sospetti di una malafede di fondo, altrettanto strategica dello smaltimento dei rifiuti. Senza contare tutte le altre forme di incuria, abbandono e distruzione di un luogo che avrebbe dovuto essere preservato come una ragione tanto di devota contemplazione quanto di cauta prudenza. Entrambe sono state evase dalla scelleratezza e dall’ignoranza.

Ormai è tardi. Molto di quello che è stato il fuoco invisibile, prima ancora di quello reale, che ha deturpato per sempre il grande immaginario vesuviano proviene da una correità, da un’alleanza a volte tacita altre volte volutamente accordata, tra la politica e le organizzazioni criminali. Sia la camorra che le istituzioni non avrebbero potuto fare tutto da sole. Il caos strumentale ai piedi del vulcano è stato a lungo il patto tra queste due forme di potere.

La gravità di quanto accaduto e ancora dovrà accadere è nel segno sconfitto che questa tragedia si porta dietro. La Campania è testimone diretta di un atteggiamento che proietta duecento anni di storia. Se la Rivoluzione industriale ha cambiato il mondo, questo stesso mondo ha deciso di adottare un linguaggio della sua visione estremamente pericoloso. E ormai da tempo se ne subiscono gli effetti. Linguaggio della visione perché il nuovo modo di intendere l’ecosistema è alterato dalle regole di mercato. Un’alterazione che ha mutato la nomenclatura stessa della natura, influenzando le nuove generazioni, ormai completamente assuefatte da una pronuncia della natura attraverso il linguaggio economico. Se una visione del genere viene interpretata da poteri che indiscriminatamente ambiscono all’estremizzazione dell’interesse economico, allora il risultato è completamente indipendente da ogni senso di responsabilità e di sensibilità. Quello che da sempre è l’atteggiamento della politica e della criminalità. Tuttavia sarebbe piuttosto limitato puntare il dito contro il genio criminale. Tra le fandonie che vengono raccontate da chi, anche dall’interno di importanti e decisivi luoghi di contrasto, millanta presunti indebolimenti delle organizzazioni delinquenziali, e l’incapacità, oltre che il probabile e funzionale disinteresse, di provvedere si nasconde il luogo a procedere di questo protocollo sistematico, godendo, così, della dissimulazione politica e della impotenza collettiva.

Il fuoco appiccato sul Vesuvio non è l’unico segno di questa direzione. Basta soffermarsi a riflettere sulle condizioni ambientali dell’Italia meridionale. In Campania la situazione è al limite della sopportazione e la prudenza di sorta lascia il tempo che trova davanti al fatto che migliaia e migliaia di vittime di gravi malattie siano l’effetto di questa drammatica alterazione.

Il rapporto aria, terra, fuoco e acqua è alterato da formule che poco hanno a che fare con i delicati equilibri dell’ambiente naturale. Per mano dell’uomo i quattro elementi si ritorcono contro l’uomo. Tutto ciò che in natura ha una funzione precisa e insostituibile è indotto ancor più a quel limite di sopportazione. Se l’uomo attenta ai quattro elementi, attenta al codice primario del pianeta. E, se viola questo codice, mette a rischio il momento zero del sistema naturale.

Un golpe contro l’ecosistema, una sostituzione alla forza creatrice, una nuova invenzione di dio.

Nel caso del Vesuvio e dei roghi appiccati in altre zone della Campania e in altre regioni, il comportamento dei media è altrettanto ambiguo. Da un lato la spettacolarizzazione su internet (che ha bisogno di attenzione finalizzata a scopi commerciali), con titoli discutibili e con ciclostili di notizie infondate rivolte a sollecitare l’emotività, il nuovo genere di attenzione di massa, dall’altro la secondaria attenzione nei tg e sui giornali, dimostrando un disinteresse di costume altrettanto ambiguo. A questi problemi è stato assegnato il verbo essere. Una condanna perpetua e un’iscrizione alla legittimazione naturale delle cose. Come le dichiarazioni di chi opera nei settori della sicurezza, della prevenzione, del soccorso e delle indagini. Forze dell’ordine, vigili del fuoco, protezione civile rassegnano una cautela dalla quale traspare una sorta di deposizione. Ogni forma di abnegazione si avverte malinconica e reietta.

Alla gravità, al peso degli accadimenti si aggiunge l’animo che già conosce l’esito e gli effetti. La tragedia ha perduto la sua quota di sperimentazione. Nessuna didattica dell’errore giunge a restituire dignità alla colpa. Quando tutto questo si impadronisce della spiritualità di una civiltà, allora vuol dire che la vita stessa di un luogo è affranta nella veglia al suo destinarsi vittima innocente e colpevole allo stesso tempo. E una lunga elaborazione del lutto confonderà i suoi stadi con quelli della speranza. Una condizione sottile, resistente, duratura, che lambisce l’autismo di massa. In questo è caduto quel luogo indefinito e antico che chi avverte un senso di appartenenza definisce “terra”. Lo stesso nome del pianeta, che a fatica riproduce la sua anagrafe romantica in piccole e confortanti regioni identitarie. Un’ostinata conservazione che si trascina aridamente verso la protezione delle sue radici.

Le fiamme che circondano il vulcano secondo una geometria così perfetta e inquietante non sono l’inizio né il preludio a qualcos’altro. Soltanto il decorso di un destino determinato da chi è sovraordinato a un genere di sensibilità privata del suo spazio tra le interazioni umane. La stessa retorica delle soluzioni è un’altra condanna che si somma al dolore della pena. Del resto, la lunga storia della derivazione del nome Vesuvio insegna che tra l’elenco delle ipotesi, fra quelle più attendibili e quelle più fantasiose, non esiste segno di pace e di serenità. Così come, rievocando le più antiche suggestioni letterarie della storia del teatro, l’asse che eroticamente tiene uniti il Vesuvio e l’Etna attraversa la regione di disperazione che avrebbe dovuto votarsi alla felicità, invece che a questa miserevole condizione. Abbiamo fatto più danni noi a Vesuvio addormentato che lui se fosse eruttato. Da bambino ne ho sempre avuto paura, poi ho capito che a guardarlo si deve temere ancor più tutto quello che lo circonda.

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