Jobs act: votato per disciplina di quale partito?

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Il “jobs act” è passato, è stato approvato. A parole non piaceva a molti all’interno del Pd, tra i quali Pierluigi Bersani ma lo hanno votato per “disciplina di partito”. Così si giustifica Bersani: “disciplina di partito”.


Ma di quale partito parliamo? Di quale governo parliamo?

Se in PD fosse il partito di maggioranza di un governo politico, lo potrei capire. Ma il governo Renzi non è un governo politico, il PD non ha vinto le elezioni presentando questo programma che ora andrebbe rispettato.

La riforma del mercato del lavoro appena approvata ha dovuto soddisfare parti politiche molto diverse, sulla carta si intende, tra loro.

La disciplina di partito ha senso se si devono rispettare le promesse fatte in campagna elettorale. E noi sappiamo bene quanto questo, praticamente, non accada mai.

Bersani non ha avuto il coraggio di non seguire il pensiero unico e di far valere le proprie ragioni, sempre che veramente le sentisse sue.

Il provvedimento è stato approvato per non far cadere un governo che sta in piedi per miracolo. E la cosa peggiore, secondo me, non sono quelli che lo hanno votato con convinzione; bensì quelli che ci vogliono far credere il contrario.

Tutto sembra partire dal dato delle regionali in Emilia, da quell’astensione “inedita e impressionante”. ‘Il messaggio di quel voto – spiega Bersani intervistato da Repubblica – o meglio di quel non voto per me è chiarissimo. Significa ‘restate lì. Noi elettori del Pd ci siamo come autosospesi ma non vogliamo andare da nessun’altra parte’. Non a caso le forze della sinistra alternativa prendono poco o niente, percentuali dello zero virgola. Le cose cambiatele dentro al Partito democratico, è il senso di quella delusione profondissima e che nessuno dovrebbe sottovalutare. Per questo è ancora più grave che Renzi faccia finta di niente”.

E così spiega il sì al provvedimento che riforma il mercato del lavoro, “per non negare i passi avanti compiuti” anche se molto resta da fare e da cambiare anche perché “con il Jobs Act non si va al cuore del problema che è la produttività del lavoro. Ci sarà un recupero su quel terreno? Non credo. Ci avvitiamo sull’articolo 18, che aveva bisogno al limite di qualche ritocco, ma non era certo il cuore di una questione drammatica. Io la penso così. E non mi chiamassero conservatore sennò è la volta che mi incazzo”. Cosa bisognava fare di diverso? “È stato tutto sbagliato fin dall’inizio. Ma spero che si possa dire ancora cosa bisogna fare, perché c’è tempo per correggere. La vera sfida al mondo del lavoro, sindacati compresi, doveva venire dal lato della produttività e quindi da una flessibilità dell’organizzazione aziendale, da una sfida sul tema decentramento e partecipazione. Avere invece affrontato cose minori come l’articolo 18 o altro, o avere creato un ulteriore canale che differenza la situazione dei lavoratori sullo stesso banco di lavoro è un approccio negativo”.

Quel non voto, secondo Bersani, significa “restate lì”. Io non so cosa pensassero gli emiliani ma dubito fortemente che quello fosse il messaggio.

Da un lato il non voto è un disinteressamento verso le sorti del Paese, assolutamente da condannare. Ma da un lato deve essere visto come protesta, come il non sapere davvero dove mettere il segno. Come può voler dire “state lì”? State lì e cambiate le cose? E come le cambi? Approvando un provvedimento che non approvi?

Non so che libro per decifrare gli incubi abbia Bersani, ma gli conviene prendere una versione più aggiornata.

Classe 72, torinese e profondamente torinista e anti-juve. Convinta notav, amante della satira e della comicità. Scrivere è tutto quello che vorrebbe fare da grande.