La strategia della lamentazione

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“Il Comune istituisce lo sportello online Difendi la Città! al fine di raccogliere le segnalazioni dei cittadini napoletani relative alle offese di natura diffamatoria contro Napoli, per chiedere attraverso gli uffici comunali interessati precisazioni ed apposita rettifica delle notizie lesive, ma eventualmente avviando, previa attenta ed accurata valutazione dell’Avvocatura comunale, iniziative legali volte a tutelare la dignità del territorio, l’immagine e la reputazione della Città e del popolo partenopeo. In caso di azioni di tipo legale, i proventi ricavati dalla richiesta di risarcimento danni, saranno destinati a migliorare la qualità dei servizi, l’igiene e il decoro della città.”

Siamo a questo, all’autoparodia, la realtà supera sempre l’immaginazione. “Chiedendo APPOSITA RETTIFICA”.

A me fanno orrore i fascismi sanguinari, ma quelli burletta, ad alto tasso fictionale, nei quali mi si vorrebbe catapultare non mi fanno sorridere, bensì mi inquietano, perché si innervano sull’anestesia ideologica, si puntellano sul disordine argomentativo, si pascono della pancia titillata, agiscono in nome e per conto dell’autarchia rivendicata (e ne sappiamo qualcosa, in ItaGlia, di autarchia).

E dunque, chi diffama la città viene querelato. Solo che non si individuano i termini della diffamazione, figuriamoci a stilare uno straccio di regolamentazione normativa: chi diffama? il sindaco di Cantù, “Libero”, gli ultras dell’Atalanta, Saviano? Diffamo anche io, quando al bar dico, con fare vagamente qualunquista e senza prove concrete che il sindaco, che so, assegna case popolari a camorristi ledendo, prop’iss, l’immagine della città? Perché poi magari uno dei giovanotti che invece di andare a faticare vann’a rompere ‘o cazz a Pontida pensando che quello sia fare politica e esibire appartenenza mi sente e, pure se tengo famiglia, mi fa una bella delazione da sicofante, come nel Ventennio? Io sento olezzo, tanfo, miasma di pazziella ‘mmano ‘e creature, una cosa pericolosissima.

Del ridicolo di cui ci si copre, dei coppetielli che io per primo menass ‘a reto, se vivessi a Cuneo o Valdobbiadene, sono responsabile anche io. Io che canto “difendo la città” allo stadio, io chiamo me stesso in correità per aver contribuito a lasciar slittare sulla città il campanile da stadio, io che senza volerlo alimento questo impermalimento permanente che ha rotto le palle, questa autoreferenzialità infinita che ci chiude in un ghetto, questa totale assenza di confronto col Mondo, che, badate, è pieno di posti belli come Napoli, basta uscire fuori dal LungomareLibberato, che non ha eguali per carità, e andarli a visitare, e a conoscere culture, oltre che paesaggi.

Io amo la mia città, perché amo le mie radici, la mia cultura, la mia identità, e pure Totò, Massimo troisi, Pino Daniele, Hamsik e Insigne. Ma chiunque ama il suo paesello e la sua piazza, chiunque. Non siamo vittime di alcuna congiura. Proprio nulla.

Non amo più, della mia città, l’aria irrespirabile, il clima da assedio, l’orgoglio posticcio, l’arroccamento culturale, che, se autenticati dall’istituzione pronta a raccattare l’input della società civile, diventano una cosa ridicola e basta, una deriva che porta al folle autogol della città autonoma e dello statuto specifico.

Dio solo sa quanto mi costi dar ragione a Gramellini, che nel suo micro-editoriale di oggi spiega che “Napoli è città fuori dal comune bersagliata dai luoghi comuni. Ma non è un luogo comune il vittimismo alimentato dalla sua classe dirigente, che da secoli, per non procurarsi il fastidio di affrontare i problemi, trova decisamente più comodo attribuire la loro mancata soluzione a un complotto esterno”.

Lo aveva già detto, con delirio visionario pari al sacerdozio linguistico, Ruggero Cappuccio in “Fuoco su Napoli”, un libro pazzesco che meglio di tutti ha descritto stato e condizione di questa città meravigliosa e maledetta e dei suoi abitanti lazzaroni e geniali: “ Nell’arco di centinaia di anni Napoli ha elaborato una raffinatissima strategia della lamentazione. Per ellenizzare potrei dire che laggiù abita un popolo logolamentazionale. Secondo i napoletani, la colpa di tutte le catastrofi e di tutto il male, una volta è di san Gennaro, una volta del Vesuvio, una volta degli Angioini, una volta dei tedeschi, una volta del terremoto e una volta degli americani, una volta della Prima guerra mondiale e una volta della Seconda, una volta della Cassa per il Mezzogiorno, un’altra della classe politica, una volta del Nord e la volta appresso del colera. Ecco, la colpa è sempre di una terza persona o di un’altra cosa. I napoletani si credono innocenti. Innalzano il loro canto lamentevole contro il destino, si fanno la ninna nanna da soli e si addormentano.”

Sia lode, intendiamoci, al timing politico del sindaco, ai suoi tempi di ingresso, come ha ben detto qualcuno, al suo rapporto anticipatario con ventre e umore dei sudditi, alla sua attitudine a entrare in connessione col popolo reale e con la borghesia presunta, a cogliere tendenze, intercettare scontenti, incanalare discussioni e storytellings. Oltre questo, sostanzialmente poco, ma a quanto pare, questo oggi basta. Basta cavalcare un sentimento diffuso arrangiandosi come si può sulla erogazione dei servizi, tanto i turisti, quelli, non ne devono ricevere.

Lunga vita a ‘stu spurtiello, dunque. È ‘o popolo che ‘o vvo’.

Enrico Ariemma Docente di Lingua e Letteratura latina presso l’Università di Salerno. Uomo di inverni miti e di estati di passione, malato di Napoli e di filologia, in quale ordine non saprebbe dire. Chirurgo di testi per vocazione antica e per impegno accademico, prova con francescana ostinazione a educare alla Bellezza, dinanzi ai cui inattesi impercettibili cristalli si stupisce e si commuove. Per questo detesta con pervicace ostinazione il brutto, il crasso, il banale, il volgare. Stanziale da quarant’anni al San Paolo, legge, scrive, insegna, cavalca una moto, inforca gli sci, va per mare, vagabonda per mostre, viaggia per le leghe del pensiero e per le strade del mondo. Ama.