L’unica soluzione? Piangere! Pillole di vittimismo all’italiana

Condividi su

Chi è causa del suo mal pianga se stesso” si diceva. Bisogna dire che l’Italia risponde perfettamente a questi universali e millenari dettami. La “Repubblica del Dolore” qualcuno l’ha chiamata. Sì, perché oltre a deliziare il mondo con la nostra cucina e a vestirlo in modo raffinato (a volte), siamo campioni assoluti in vittimismo e autocommiserazione. L’Italia è una mamma coccodrillo che mangia i propri figli per poi pentirsene, sversando da nord a sud lacrime intrise di pietismo e tardivo pentimento. Un antico retaggio che si perpetua – in diverse forme – dalla sua nascita (l’allora ministro dell’Interno, Ricasoli, nel 1859, commissionò la raffigurazione pittorica di alcune battaglie risorgimentali, per “aiutare gli italiani a immaginare il proprio paese”, per metterli di fronte alla feroce realtà della guerra, creando così una tradizione epica, una nuova cornice eroica dove collocare i martiri del nuovo stato unitario) fino all’ultima trasmissione di Barbara d’Urso o all’ultimo post pubblicato su Facebook. Un maldestro atto di scusa verso se stessa, per gli errori che si potevano evitare, per le vite che si potevano salvare.

listenerDopo centocinquant’anni e passa, lo storico “Fare gli Italiani” di Massimo D’Azeglio non si è ancora realizzato e le prospettive a breve termine non sono per niente entusiasmanti: non c’è spirito di comunità, ci si disprezza tra frazione e frazione, magari per l’accento leggermente diverso magari per un derby di calcio finito a ‘mazzate’. Tutto ciò fa dello ‘Stivale’ un universo sempre più affollato da derive familistiche ed egoismi aggressivi, aspetti che sembrano riproporre quella “Patria Municipale”, teorizzata da Gioberti per l’Italia preunitaria, fatta di “casa, famiglia, parenti, amici, poderi, traffico, industria, clientele, cariche, reputazione”.

Eppure le occasioni le abbiamo avute: per non andare troppo indietro nel tempo, basti ricordare la “Rifondazione” che solo vent’anni fa la classe politica – uscita dal crollo della prima Repubblica – fu chiamata a generare e perpetuare ma che è rimasta, purtroppo, solo un rimpianto su cui amaramente riflettere. Si trattava di mettere mano a riforme, occupare vuoti, proporre una rilettura del passato nazionale, inculcare nuovi valori basati sul concetto di Repubblica. Si è fatto tutt’altro. Oggi paghiamo gli strascichi di quegli errori, ritrovandoci – per sentirci “Italiani”- a dover piangere le vittime di un terremoto o di un’alluvione, piuttosto che i morti ammazzati dalle mafie, dal Terrorismo, dalle “Missioni di Pace” (sic!), dalla Shoah, dalle Foibe, ecc… e per emozionare, impietosire, suscitare maggiore consenso, le sofferenze vanno gridate possibilmente in televisione, ultimamente sui social.

Sia chiaro, non è una specificità solo italiana. Ogni paese ha dovuto plasmare e lo sta ancora facendo – chi bene, chi con effetti disastrosi, molto più dei nostri – la propria coscienza nazionale. Per quanto ci riguarda, il colpo di spugna di ‘Mani Pulite’ sull’apparato politico nazionale ebbe inevitabilmente conseguenze molto drastiche: nel giro di un paio di anni, i partiti che da mezzo secolo animavano lo scenario politico italiano non esistevano più e con essi quel “patto di memoria” stretto durante gli anni col popolo. Ma si sarebbe potuto rintavolarlo, ridiscuterlo. La memoria pubblica è un ‘patto’ in cui ci si accorda su cosa trattenere o cosa lasciar cadere, il pilastro su cui fondare i programmi scolastici, i luoghi di memoria, i criteri espositivi dei musei, i calendari delle festività civili. Memoria pubblica sono le partite da ricordare, i presidenti della Repubblica che giocavano a scopone coi giocatori, i “Festival di Sanremo”, i “Rischiatutto”  e via dicendo.

Di questi tempi, invece – tra un presidente che sembra uscito dal cinema polacco e dei patetici e malriusciti tentativi di riemulazione dei vecchi programmi di una volta – l’empatia tra istituzioni e società civile è ai minimi termini e per rinfoltire la coscienza nazionale non si fa altro che indire nuove e svariate date per celebrare le vittime di un qualcosa – “Giornata della Memoria” (27 gennaio), “Giorno del Ricordo (10 febbraio)”, “Giornata per la Memoria dei Marinai Scomparsi in Mare” (12 novembre) – senza dimenticare i progetti di legge relativi a giornate per le “Vittime dell’Odio Politico”, della “Criminalità”, del “Comunismo”, delle “Tragedie Causate dall’Incuria dell’Uomo e dalle Calamità Naturali”, dei “Disastri Ambientali e Industriali Causati dall’Incuria dell’Uomo”, del “Lavoro”, degli “Emigrati Deceduti sul Lavoro all’Estero”, dei “Martiri per la Libertà Religiosa”, eccetera, eccetera.listener-2

Insomma, ci troviamo di fronte ad uno stato sempre meno potente, che prima provoca i guai e poi si ritrova pieno di rimorsi, incapace di dialogare col popolo, di restaurare e rinverdire quel ‘patto’ di cui sopra, inabile a proporre nuove alternative che non siano episodi su cui versare quelle famigerate ‘lacrime di coccodrillo’. Per carità, qui nessuno sta negando l’importanza della commemorazione e della riflessione. Anzi. Ma il paradigma vittimario – il ‘piangersi addosso’ – si presenta oggi nello spazio pubblico con i tratti di una marcata egemonia culturale tanto da far impallidire ogni tentativo di rivisitazione critica dei suoi fondamenti e ormai l’essere vittime o celebrarle appare una condizione imprescindibile, l’unica porta per poter accedere ai diritti, per trovare ascolto, per poter legittimare la propria verità.

Il tutto ha un non so che di perverso: in questo clima di depoliticizzazione, le rivendicazioni politiche acquisiranno valore solo se troveranno non delle idee da difendere ma delle vittime da compatire e ognuno – a suo modo – cercherà di essere più vittima dell’altro.

Nato a Napoli nell’agosto dell’Ottantatré, cresciuto attorno al rione San Paolo di Casoria a pane, pallone e musica rock. Dopo la maturità scientifica conseguita col minimo dei voti cambia decisamente rotta laureandosi in Storia con centodieci. Oltre al Napoli, ama tutto ciò che riguarda libri e dischi. Da sette anni padrone di un meticcio di nome Polly che lo ha avvicinato tantissimo al mondo dei cani e degli animali in genere. Vive sognando, in particolare girare il mondo in camper con la sua Anna, e parlare, un giorno, di fuorigioco e tattica con suo figlio allo stadio, oltre, ovviamente, a crescere sempre di più nel campo del giornalismo…ma non solo.