Morto Gerardo Marotta, il padre dell’Istituto per gli studi filosofici.

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«Sembra sia solo a Napoli, in Palazzo Serra di Cassano, possibile misurare la distanza tra la memoria dei valori dell’umanità e la fede nell’intelligenza umana per evitare il loro feroce annientamento»

Vaglielo a spiegare ai ragazzini esaltati della Napule della pizza, dei panorami e del criptofascismo revanscista chi era Gerardo Marotta: altro che il ghetto della sfogliatella e dell’«avimmo scassato», della rivoluzzzione e del governo autonomo, amenità da perditempo che mortificano una cultura e una identità.

È negli anni d’oro di Marotta e dell’IISF, e non oggi che gli alberghi rigurgitano ricettatori di panzarotti e assalitori di Nalbero, che mi sono sentito “al centro”. Al centro perché Napoli era crogiuolo e fucina, perché era luogo di tolleranza e di accoglimento, perché era attraente e attrattiva; e non per le vasche dei turisti ncopp ‘o lungomare, ma perché si producevano idee, discutendole (etimologicamente: sbattendole di qua e di là), confrontandole, producendo miglior senso dal dissenso. Perché all’elemento centripeto – a Napoli venivano tutti – non si contrapponeva la stoltezza autoreferenziale di chi si sente detentore unico di bellezza e di core ‘e mamma, ma si affiancava la necessaria apertura collaborativa e assorbente, la sinergia, la collaborazione – etimologica: l’affaticarsi insieme, lavorando a qualcosa. Punto di arrivo, ma punto di partenza; punto di partenza, ma punto di arrivo.

E così ti spieghi il percorso comune con l’Ecole des Hautes Etudes, col Warburg Institute, col Cern, con la sede (la sede!) di Heidelberg, con Friburgo, le duecento scuole aperte nel Mezzogiorno, un propellente culturale e occupazionale straordinario a cui le ali, in un modo o nell’altro, sempre sono state tarpate. Era, quella, la Napoli nella quale le persone di buona volontà (e cultura) si sono sempre riconosciuti, la Napoli che in un percorso ora lineare ora frastagliato sa sfregare e armonizzare i suoi plurima corda, la Napoli che sa accogliere e chiamare, non la Napoli infognata nell’oleografia imperante del “ ‘o tenimmo sulo nuje”, che si nega, respingendolo, a chi non si allinea al Pensiero Unico dell “arrevutammo”.

Tanto in questa Napoli allegra e superficiale si spara oggi come si sparava allora.

E vedrete che adesso, e solo adesso, e sarebbe l’ultimo insulto populista, qualcuno si dei trecentomila volumi sparsi tra capannoni e appartamenti umidi. Quelli per i quali Marotta, che, semplicemente, ERA la sua biblioteca, aveva chiesto disperatamente ospitalità, gli era stato ostentatamente promesso la qualunque, ma la fiducia istituzionale nella Napoli che amava era venuta meno. Tanto almeno pare a risentire un audio dell’aprile 2013, quando, dopo aver tuonato un “vergogna” dinanzi alle massime istituzioni cittadine, con la malinconia trasognata e la rabbia residuale di chi ancora crede nell’illuminismo professato una vita, ma lo vede disgiunto dai luoghi nei quali lo ha praticato, dichiarava: «speriamo che la città si liberi dal peso dei predoni che hanno preso il posto dei ceti medi che sono scomparsi, quei ceri medi che mantenevano la città in piedi, oggi invece ci sono semplicemente forze retrive che governano la città e le impediscono di fiorire»

Grazie, comunque, avvocato. In quella Pizzofalcone vilipesa dai neo-muschilli e dalle stese ignorate dalla barbarie del neomasaniellismo, Marotta mi ha fatto vedere e sentire, ma “vedere” rende assai meglio, cose che voi umani eccetera eccetera. Kristeller, Habermas, Garin, e dio sa quante volte mi venivo a “riascoltare” al pomeriggio la lezione che Gigante aveva tenuto la mattina.

Ma grazie, soprattutto, per Gadamer, che Marotta rese chiù napulitano ‘e me, e del quale nessun napoletano che senta dentro di sé una meravigliosa, ossimorica identità europea può non dirsi allievo.

Ma vaglielo a spiegare chi è Gadamer, ai forsennati dell’ è ‘o popolo che ‘o vvo’. O quel Derrida che gli recita un epitaffio ante eventi di straordinaria bellezza ed efficacia: «Marotta vede chiaro e lontano, precorre i tempi. Si presenta all’appuntamento in anticipo. Ha ragione. Bisogna dargliene atto. Bisogna dargli ragione. Avrà avuto ragione prima di tutti gli altri.».

Enrico Ariemma Docente di Lingua e Letteratura latina presso l’Università di Salerno. Uomo di inverni miti e di estati di passione, malato di Napoli e di filologia, in quale ordine non saprebbe dire. Chirurgo di testi per vocazione antica e per impegno accademico, prova con francescana ostinazione a educare alla Bellezza, dinanzi ai cui inattesi impercettibili cristalli si stupisce e si commuove. Per questo detesta con pervicace ostinazione il brutto, il crasso, il banale, il volgare. Stanziale da quarant’anni al San Paolo, legge, scrive, insegna, cavalca una moto, inforca gli sci, va per mare, vagabonda per mostre, viaggia per le leghe del pensiero e per le strade del mondo. Ama.