‘O collier, l’ultimo latitante.

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– di Simone Di Meo, per gentile concessione-

Articolo pubblicato su http://stories.inform-ant.com/

Quando l’agente del Sismi entrò nel bar, come ogni mattina, il cassiere rimase in silenzio. «Strano», pensò lui. Diede uno sguardo rapido all’orologio e ordinò. «Il solito, grazie».
Poco più là, un altro uomo era in attesa del suo caffè. Lo 007 lo osservò sottecchi. Lo sconosciuto appoggiò con fatica il braccio destro sul bancone aiutandosi con l’altra mano. E restituì l’occhiata.
Si voltarono insieme fissandosi per un lunghissimo istante. E sorrisero entrambi mentre si portavano le tazzine alle labbra.
L’agente dei Servizi segreti lo aveva riconosciuto. Erano anni che gli dava la caccia. Ma quel giorno non sarebbero scattate le manette.
«Era protetto a vista da gorilla armati» mi racconta oggi il protagonista di quell’incontro, ormai in pensione. «Se soltanto avessi messo la mano in tasca sarei stato fulminato dalle pallottole».

Un fantasma

A metà degli anni Ottanta, il fantasma di Pasquale Scotti aleggia ancora sulla provincia nord di Napoli. È il capo degli assassini della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo e il custode del patto tra Democrazia Cristiana e camorra per la liberazione del discusso assessore regionale Ciro Cirillo, sequestrato dalle Brigate rosse nel garage di casa sua a Torre del Greco, il 27 aprile 1981.
Ferito nel 1983 in un furioso conflitto a fuoco con la polizia, che gli costerà l’arresto e la quasi completa paralisi dell’arto, Scotti evade il 23 dicembre del 1984 dall’ospedale di Caserta, calandosi dal terzo piano con una corda di lenzuola annodate. Un cronista dell’epoca, raccontandone l’abilità da trapezista, scrive che l’angelo custode del camorrista ha sicuramente una divisa. E, probabilmente, non sbaglia.
Per trentun anni Pasquale Scotti è stato un fantasma. Su di lui si sono rincorse leggende (come quella del suo soprannome, Pasqualino o’Collier, per via di un diadema da 500 milioni di vecchie lire regalato alla moglie di Don Raffaé), identikit, segnalazioni, false piste. Per trentun anni ha galleggiato ai primi posti della lista dei latitanti più pericolosi compilata dal Viminale. Questo breve webdoc di WildItaly ne ricostruisce la biografia.

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Il 26 maggio scorso la fuga pluridecennale di Pasquale Scotti è terminata. Gli investigatori lo hanno stanato a Recife, dove aveva assunto l’identità paciosa di tale Francisco Visconti De Castro, sposato a una donna dalla quale ha avuto due figli maschi. Una vita normale, tranquilla. Ci sarebbe di che scomodare Hannah Arendt e la sua banalità del male. Forse lo ha pensato anche lui, visto che al momento dell’arresto le sue prime parole sono state: «Sono io, mi avete preso. Ma quel Pasquale Scotti non esiste più, è morto negli anni Ottanta».
A oltre un mese di distanza da quella cattura, il boss è ancora in galera in Brasile in attesa di una estradizione che si preannuncia tutt’altro che semplice. In Italia deve scontare l’ergastolo per l’omicidio di Giovanna Matarazzo, soprannominata Dolly Peach. Giovanna era l’amante di Vincenzo Casillo, il numero due della Nco che girava per Roma (e per l’Italia) con la tessera del Sismi in tasca. La donna fu uccisa e sepolta nel cemento vicino a un ponte, alla periferia di Acerra. Era a conoscenza di troppi segreti, quella ballerina di night club con superattico a Grenoble e casa di lusso a Primavalle. Gli uomini di Scotti la rapirono, la torturarono e le spararono due colpi alla testa.
A chi lo ha interrogato, nelle camere di sicurezza, Scotti ha voluto ribadire di essere rimasto in Sudamerica per ventotto anni di fila. Di essersi rifatto una vita e di aver abbandonato ogni attività illecita.
Dice la verità?

Vicino alla villa di Craxi

Questa inchiesta giornalistica, basata su testimonianze dirette e atti segreti rimasti finora inediti, proverà a raccontare quel che ancora non è ufficiale e a ricostruire gli ultimi misteriosi anni di latitanza. Quelli trascorsi in un’enorme villa ad Hammamet, in Tunisia, protetta da mastini e telecamere, a poche decine di metri dall’ultima dimora di Bettino Craxi.
Lì il fuggiasco è rimasto fino all’esplosione della primavera araba quando ha perso l’appoggio del regime di Ben Ali, l’ex presidente che aveva destituito Bourghiba con un colpo di Stato «protetto» dal Governo italiano e dal Sismi nel 1987. Il Sismi, come vedete, ritorna spesso in questa storia.
Attorno alla sua fuga, erano fiorite le leggende. È morto? Si è ritirato in un convento? Si è sottoposto a una plastica facciale? È protetto da apparati deviati dello Stato?
Tutto era vero, e tutto poteva essere falso.
La svolta vera arriva solo parecchi anni dopo la clamorosa evasione, quando il suo identikit è poco più di un atto dovuto nella lista dei trenta latitanti più pericolosi d’Italia. Ed è merito di un gruppo di poliziotti dal naso fino che, al decesso del boss, non ha mai creduto. Per questa loro testardaggine, faranno tutti o quasi una brutta fine.

 

La cimice e lo champagne

La fase due della caccia a Scotti ha una data d’inizio ben precisa: 2007. Quell’anno, quando il killer manca all’appello già da oltre venti, una cimice della Direzione investigativa antimafia di Napoli registra una strana conversazione nell’ufficio di un notaio del capoluogo campano. Giuseppe Scotti e il fratello di Pasquale. È seduto davanti al professionista e sta parlando della spartizione dell’eredità. Nella quale calcola anche la quota di Pasquale. «I tre appartamenti suoi non si toccano», esclama. Il notaio non aggiunge nulla. Si attiene alle disposizioni del cliente. E prepara le carte da firmare.
È la prova che il killer è ancora vivo. Difficilmente, i fantasmi si occupano di rogiti e passaggi di proprietà. E poi Giuseppe Scotti non è tipo di cedere ai sentimentalismi.
La Direzione investigativa antimafia inizia allora a cercarlo con più convinzione. E apre un dossier ribattezzato «Scozia».

Otto uomini più il capocentro seguono come un’ombra il fratello in Francia e in Spagna. Sono convinti che, prima o poi, lui e Pasquale si incontreranno. Per puro caso, scoprono che Giuseppe ha prenotato una crociera nel Mediterraneo con la moglie: tra le tappe in programma c’è anche Tunisi.
I nove sbirri – tra cui anche l’agente che lo ha arrestato nel 1983 ferendolo al braccio – decidono di andargli dietro. Prenotano tre cabine. Gliele paga la Procura di Napoli perché, a Roma, dicono di non voler spendere soldi.
Poche ore prima di attraccare e iniziare il pedinamento, accade però qualcosa di incredibile. Al tavolo degli agenti della Dia arriva una bottiglia di champagne. Accompagnata da un biglietto di buone vacanze firmato «Pasquale».

Minacce

L’operazione è saltata, ma i poliziotti non si perdono d’animo. Pedinano Giuseppe Scotti in giro per la città a bordo di un bus. L’uomo è guardingo. Pare essere in attesa di un contatto. C’è qualcosa che non va. Vuoi vedere che riesce il colpo?
Dopo un’oretta, venti poliziotti tunisini accerchiano i colleghi italiani pistole in pugno.
Sostengono che non possono fare indagini in Tunisia senza autorizzazione, ma è chiaramente un pretesto per bloccarli. Gli italiani sono disarmati. Provano a spiegare che sono semplici turisti, ma è inutile. Per evitare guai peggiori, ripiegano. Tornano sulla Msc e iniziano a mettere assieme i pezzi. Giuseppe Scotti è andato. E non si saprà mai con chi ha fissato l’appuntamento in una delle piazze più affollate della capitale. Chi protegge il latitante a Tunisi? Chi lo avvisa delle ricerche?
Che il boss sia vivo non è più una semplice ipotesi. Ma il gioco è diventato assai pericoloso e bisogna fare attenzione. Scotti e i segreti del rapimento di Ciro Cirillo sono come un filo dell’alta tensione. Chi li tocca, muore. L’ultimo che ci aveva provato è stato crivellato di proiettili in piazza Nicola Amore. Si chiamava Antonio Ammaturo ed era il capo della Squadra mobile di Napoli.

Il Dossier

Poi Pasquale è furbo. Abile. E ricco. Può contare su appoggi insospettabili che gli procurano carte d’identità falsificate, rifugi sicuri e salvacondotti. Ed è pure un uomo fortunato. Tanto, tanto fortunato. Perché il capocentro Dia che gli sta col fiato sul collo, nel frattempo passato alla guida del centro Aisi di Napoli, viene fatto fuori da un dossier-bufala confezionato con l’aiuto anche di due giornaliste napoletane.
Lui si chiama Adolfo Grauso, ed è un investigatore vecchio stile che si è fatto le ossa nei commissariati di frontiera. Un mensile locale insinua che nelle stanze dei servizi segreti partenopei, invece di lavorare, si pasteggi a mozzarella e prosciutto. E, per chiarire meglio il messaggio, pubblica pure le foto di Grauso e di un suo collaboratore facendone saltare la copertura.
I vertici romani dei servizi segreti, che avrebbero di che preoccuparsi con le inchieste di Palermo su «faccia di mostro» e sulle ombre relative alla sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, si arrabbiano invece per questo falso scoop e trasferiscono Grauso d’imperio. Senza nemmeno approfondire quel che c’è scritto nell’articolo. Ma forse l’importante era proprio togliersi quello sbirro dai piedi. E con Grauso, in contemporanea, vengono trasferiti dalla Dia anche i suoi uomini più fidati. Quelli che insieme al «capo» avevano dato la caccia allo squalo. La pista «Scozia» è chiusa, morta e sepolta per sempre. Proprio come la buonanima di Dolly Peach.
Per fortuna, entrano in scena gli uomini della Squadra mobile che, ereditato il fascicolo, riprendono a fiutare le tracce di Scotti già individuate da Grauso e i suoi segugi. Ripartono dalle vecchie foto di o’Collier, dagli identikit, dalle elaborazioni della polizia scientifica. La meta è sempre quella, Hammamet.

Primavera Araba

Appena gli agenti della Questura mettono piede a Tunisi vengono minacciati un’altra volta dai colleghi nordafricani. Stavolta, è pure peggio. I poliziotti tunisini mostrano le mitragliette. Quelli campani temono per la loro vita, e tornano a Napoli. È chiaro che un apparato di sicurezza protegge Pasquale Scotti. L’arrivo dell’insurrezione in tutto il Nord Africa cambia completamente gli scenari. E pure la strategia della cattura.
La Mobile dovrà riprovarci in Brasile, dove il camorrista di Casoria è un tranquillo imprenditore di nome Francisco Visconti De Castro.

 I poliziotti lo sorprendono in un bar, dopo aver fatto colazione. Ma stavolta non ci sono i guardaspalle con la mano sulla fondina come quel giorno, a Casoria. E quel vecchio agente del Sismi che se l’era ritrovato a pochi centimetri, appena viene a sapere dell’arresto, può solo consigliargli di stare attento al prossimo caffè. Potrebbe essere l’ultimo

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