Scocca, un film già visto, l’ora dei permalosi. Napoli e alcuni paranapoletani non cambieranno mai. Mai.

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Io sinceramente non trovo nessun motivo di piagnisteo permanente, esercizio reiterato e continuato di tanti indignados, nell’essere schedato, oltremanica, come linguisticamente napoletano o siciliano. Napoletano e Siciliano, i due fecondi e virtuosi poli di una cultura autodeterminata che oggi genera in me orgoglio identitaria e appartenenza consapevole. Napoletano e Siciliano, due facce univoche di una medaglia che parla di menti eccelse più che in qualsiasi angolo del territorio autoproclamatosi italiano, eccellenze alle quali un altrove più qualificato di questa terra che fagocita i migliori ha spesso offerto la chance giusta, perché qui noi siamo, semplicemente, bravi. Comprendo, ovviamente, lo smarrimento di chi ha sperimentato straniante classificazione in situ, sul campo, in territorio straniero, di chi ha faticato a comprendere le ragioni di una specifica linguistica paradialettale (il napoletano NON È patrimonio dell’Unesco: ricordiamocelo, per favore) finalizzata a tarare al meglio l’approdo a L2, partendo da una profilatissima L1.

Nessuno che pensi l’elementare: i sistemi di schedatura post-Brexit, che poi è una semplice di tendina online, non una griglia precompilata, certificano una diversità di cui andare fieri. Non possiamo andare in loop paraorgasmico soltanto quando Sofia o Bud esportano napoletanità dichiarata come alterità. Non possiamo invocare Partenope solo per amenità parafolcloriche. Non possiamo atteggiarci a pi-erre di noi stessi, fare i fighi con i giochetti sulla qualità della vita fatta di mare sole e sfogliatelle e poi indossare l’al lupo al lupo dei piccoli e neri: ma come si sono permessi, e certo che sono napoletano, che si credono questi razzisti colonialisti, da qualche parte sicuro come la morte che sarà spuntato un hashtag che comincia per quella cagata di jesuis, Mo si fanno uscire – anche il napoletanissimo ambasciatore – che noi siamo dal 1861 uno stato unitario, avete capito bene, unitario, una cosa che ne prevede un’altra che si chiama coesione.

Si sbattono per un fatto formale, si scandalizzano per l’esibizione di pararazzismo, ma niente si fa per le laide lerce sudicie discriminazioni interne, quelle che in un secolo e mezzo hanno approfondito disparità e aumentato progressivamente la forbice differenziante, peraltro capovolgendo le condizioni di partenza, quelle del 1861 e di una Napoli – di un Sud – realmente attrattivo e competitivo nell’Europa di allora. Meno male che lo hanno capito a Londra, che un pulenta e un partenopeo sono cose na ‘ntecchietella diverse. Napoletani, vi esorto: almeno per stavolta, nun jate ‘nfreva, chesta è ‘na cosa bella.

Enrico Ariemma Docente di Lingua e Letteratura latina presso l’Università di Salerno. Uomo di inverni miti e di estati di passione, malato di Napoli e di filologia, in quale ordine non saprebbe dire. Chirurgo di testi per vocazione antica e per impegno accademico, prova con francescana ostinazione a educare alla Bellezza, dinanzi ai cui inattesi impercettibili cristalli si stupisce e si commuove. Per questo detesta con pervicace ostinazione il brutto, il crasso, il banale, il volgare. Stanziale da quarant’anni al San Paolo, legge, scrive, insegna, cavalca una moto, inforca gli sci, va per mare, vagabonda per mostre, viaggia per le leghe del pensiero e per le strade del mondo. Ama.