di Giosuè Di Palo
Bianca Balti rompe il silenzio degli ultimi mesi, lo fa su una nuova piattaforma -Substrack- in cui dà sfogo ai suoi pensieri.
Per la prima volta, dopo mesi di slogan motivazionali, di interviste alla Fagnani, servizi alle Iene, copertine su copertine in cui si mostrava come guerriera forte e combattiva, esce fuori in tutta la sua umana fragilità.
Il suo ultimo anno lo descrive come una corsa continua, tra chemio, medicazioni, visite di controllo sempre più frequenti e -nel mentre- impegni lavorativi mai annullati. Insomma, una macchina da guerra pronta a tutto pur di rimettere in piedi la sua vita.
E ci mancherebbe altro eh.

Eppure anch’io percepivo sempre qualcosa di più, e sapevo che c’era. Avendo avuto -purtroppo- esperienza diretta sapevo che la favola della Combattente senza macchia e senza paura (o quantomeno con una paura ben strutturata e argomentata con slogan di successo) non avrebbe retto il peso del contraccolpo emotivo.
Racconta Bianca di aver vissuto questi ultimi mesi non riuscendosi ad alzare dal letto, a compiere i gesti per lei piú semplici.
Eppure era viva, sana (!) sorprendentemente, con i capelli quasi del tutto ricresciuti, piena di nuove energie.
La depressione si nasconde, spesso, anche nei momenti apparentemente più felici. E proprio qui sta la parte più scomoda del racconto: quando fuori tutto sembra sistemarsi, quando il corpo finalmente smette di lottare, è l’anima a presentare il conto.
È come se il dolore, rimasto in sospeso per mesi, trovasse spazio e tempo per riversarsi addosso all’improvviso.
Bianca scrive di aver avuto paura di non riconoscersi più: di non essere la madre presente, la donna luminosa, la professionista instancabile che il mondo si aspettava di vedere. Il vuoto era lì, nei giorni in cui nessuno la guardava, quando le luci delle interviste e delle passerelle si spegnevano.
Ed è allora che, con coraggio diverso da quello mostrato nei mesi delle cure, ha deciso di raccontarsi davvero. Non come “icona di resilienza”, non come “testimonial di forza”, ma semplicemente come persona che cade, si ferma, si spegne. E che, lentamente, prova a ricominciare.
La sua confessione non toglie nulla al suo coraggio, anzi: lo rende più autentico. Perché ammettere la fragilità significa finalmente liberarsi dal mito della perfezione. E ci ricorda che, dietro ogni storia di malattia e rinascita, ci sono sempre silenzi, cadute, momenti di buio.
È un messaggio che vale per tutti: non esiste una guarigione solo fisica, e non c’è vittoria che non passi attraverso l’accettazione della propria vulnerabilità.
Personalmente posso dire che un ruolo chiave in questo processo di metabolizzazione prima, e di ripresa poi, non può che essere svolto affidandosi ad un professionista. Qualcuno che ha il compito (perché lo ha studiato) di analizzare le ferite della nostra anima, di accompagnarci in un percorso di lenta guarigione.
Perché le cicatrici non sono solo post-operatorie, spesso sono nascoste dentro di noi. E quando ci presentano il conto, spesso é assai più acre di qualsiasi medicina.
