di Giosuè Di Palo
Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Questo accade nella realtà, nella concretezza. Ma, in tempi di social, è bene ricordare che i due termini coincidono. Dire corrisponde già al “fare mediatico”.
É notizia ormai diffusa che, nei meandri di Facebook (ma non solo), circolino gruppi chiusi dove vengono diffusi materiali intimi delle proprie compagne, date in pasto a perfetti sconosciuti per una strana e perversa parafilia.
Donne, mamme, talvolta anche figlie, private della loro privacy e che diventano oggetto sessuale (seppur virtuale) di identità digitali sconosciute.
É bene ricordare, dicevo, che il dire corrisponde già al fare, perché certi disgustosi commenti sono già di per sé illeciti, e come tali perseguibili.
Purtroppo viviamo in un tempo in cui é possibile ordinare la qualunque online su Amazon e farsela spedire in meno di 24h, ma per cui una linea di confine netta in tema digitale non c’è. Non ancora almeno.
Il GDPR, Cybersicurity Act, il Codice della Privacy e lo stesso codice penale forniscono basi di analisi e strumenti di tutela sicuramente utili, ma non pienamente efficaci in un mondo in costante evoluzione e metamorfosi.
Il gruppo Facebook Mia Moglie (attivo dal 2019) mette chiaramente in evidenza gravi vuoti pratici nella protezione delle immagini private e mette in luce la lentezza delle normative nell’adattarsi alle nuove forme di violenza digitale.
Il gruppo, infatti, è rimasto attivo a lungo nonostante violasse i regolamenti di Meta e testando i limiti della content moderation e, già dopo lo shutdown, sono riemersi gruppi simili con gli stessi contenuti su Telegram.
Il caso “Mia Moglie” non è un incidente isolato. Pochi giorni dopo, un altro scandalo: Phica.eu, sito attivo da vent’anni, raccoglieva e manipolava immagini di donne, pubbliche e private, trasformandole in materiale sessualizzato. Persino figure istituzionali, come la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, sono finite vittime di questa mercificazione digitale.
È un segno dei tempi: la rete non è più soltanto luogo di scambio di idee, ma spazio dove il corpo femminile può essere esibito, alterato, consumato. E dove la dignità di una persona diventa vulnerabile a un clic.
Ogni scandalo ci lascia con una sensazione ambivalente: indignazione e impotenza. Ma anche la possibilità di trasformare l’indignazione in spinta al cambiamento. È già accaduto con altre battaglie civili: serve la stessa costanza, la stessa voce corale.
I social non sono altrove, un mondo a parte dove poter fantasticare e costruire una identità digitale separata dal nostro Io, ma sono un prolungamento della nostra mente, del nostro corpo. E sarebbe bene che si iniziasse a pensarla così.