di Giosuè Di Palo
“Sono stato scelto senza alcun merito e, con timore e tremore, vengo a voi come un fratello che vuole farsi servo della vostra fede e della vostra gioia, camminando con voi sulla via dell’amore di Dio, che ci vuole tutti uniti in un’unica famiglia” queste le ultime parole pronunciate dal neo eletto Papa Leone XIV alla messa di inizio pontificato.
Bellissime, semplici, genuine.
Se non fosse per l’enorme contraddittorietà rispetto alle parole pronunciate dallo stesso qualche giorno fa in merito alle unioni d’amore. “La famiglia è fondata sull’unione stabile tra uomo e donna, ‘società piccola ma vera, e anteriore a ogni civile società’”.
Una posizione che non è nuova, certo. Ma che stride – forse più che in passato – con il linguaggio dell’inclusione e dell’universalità che, a parole, la Chiesa sembra voler abbracciare.
Sarò ormai io forse troppo cinico, diffidente verso gli altri.
O -più verosimilmente- ho imparato col tempo a scegliere e selezionare con cura le parole che mi “toccano” da quelle che mi scivolano addosso.
Ho imparato, col tempo, che nessun giudizio di valore può essere espresso da qualcuno nei miei riguardi- o in quelli di una comunità- o può in qualche modo attaccarmi, perché un giudizio ipotetico e così tanto generalista come quello espresso dal nuovo Pontefice non definisce né definirá mai la mia persona, quanto- piuttosto- chi di tali parole si fa portavoce.
Ho imparato, col tempo, che Fede e Chiesa sono due entità intimamente connesse ma profondamente diverse.
L’una fa capo al sentire, alla consapevolezza personale, a ciò che ci connette spiritualmente con qualcos’altro.
L’altra, invece, é l’espressione più terrena del potere. La chiesa, per l’appunto, come Azienda più che come Istituzione Religiosa, che tende e tenderà sempre ad attirare non tanto più credenti, quanto piuttosto una fidelizzazione- per utilizzare un termine del marketing- intima con il cliente.
E ciò è tanto più possibile quanto più ci si fa da portavoce di un idea di famiglia – quella tra un uomo e una donna appunto- radicata nel sociale e nel tessuto economico del Pianeta.
E allora a nulla importa l’essere parte di un tutto più grande di noi, la fratellanza e sorellanza oltre ogni misura, l’uguaglianza di genere, sesso, nazionalità.
Importa ed importerà sempre un po’ di più il valore dello Status che assume maggiore rilievo, potere (economico).
Non si tratta di negare il valore della Fede. Né di sminuire chi, nella Chiesa, cerca sinceramente di aprire varchi di comprensione e accoglienza.
Ma forse è tempo di guardare le cose per quello che sono: riconoscere che l’Istituzione, nella sua forma più ufficiale, fatica ancora a tenere insieme il linguaggio dell’amore con la pratica dell’inclusione.
E che proprio da qui può – e deve – partire ogni riflessione autentica sulla spiritualità, sulla dignità, sulla libertà di essere.