Ferite inguaribili…

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di Maria Rusolo

Presidente, Giudici, credo che innanzitutto io debba spiegare una cosa: perché noi donne siamo presenti a questo processo. Per donne intendo prima di tutto Fiorella, poi le compagne presenti in aula, ed io, che sono qui prima di tutto come donna e poi come avvocato. Che significa questa nostra presenza? Ecco, noi chiediamo giustizia. Non vi chiediamo una condanna severa, pesante, esemplare, non c’interessa la condanna. Noi vogliamo che in questa aula ci sia resa giustizia, ed è una cosa diversa. […] Vi assicuro, questo è l’ennesimo processo che io faccio, ed è come al solito la solita difesa che io sento: vi diranno gli imputati, svolgeranno quella difesa che a grandi linee già abbiamo capito. Io mi auguro di avere la forza di sentirli, non sempre ce l’ho, lo confesso, la forza di sentirli, e di non dovermi vergognare, come donna e come avvocato, per la toga che tutti insieme portiamo. Perché la difesa è sacra, ed inviolabile, è vero. Ma nessuno di noi avvocati—e qui parlo come avvocato—si sognerebbe d’impostare una difesa per rapina come s’imposta un processo per violenza carnale. Nessuno degli avvocati direbbe nel caso di quattro rapinatori che con la violenza entrano in una gioielleria e portano via le gioie, i beni patrimoniali da difendere, ebbene nessun avvocato si sognerebbe di cominciare la difesa, che comincia attraverso i primi suggerimenti dati agli imputati, di dire ai rapinatori «Vabbè, dite che però il gioielliere ha un passato poco chiaro, dite che il gioielliere in fondo ha ricettato, ha commesso reati di ricettazione, dite che il gioielliere è un usuraio, che specula, che guadagna, che evade le tasse!» Ecco, nessuno si sognerebbe di fare una difesa di questo genere, infangando la parte lesa soltanto. […] Ed allora io mi chiedo, perché se invece che quattro oggetti d’oro, l’oggetto del reato è una donna in carne ed ossa, perché ci si permette di fare un processo alla ragazza? E questa è una prassi costante: il processo alla donna. La vera imputata è la donna. E scusatemi la franchezza, se si fa così, è solidarietà maschilista, perché solo se la donna viene trasformata in un’imputata, solo così si ottiene che non si facciano denunce per violenza carnale. Io non voglio parlare di Fiorella, secondo me è umiliare venire qui a dire «non è una puttana». Una donna ha il diritto di essere quello che vuole, senza bisogno di difensori. Io non sono il difensore della donna Fiorella. Io sono l’accusatore di un certo modo di fare processi per violenza.” 

Ho deciso di iniziare il mio pezzo di oggi urlando NO, e lo faccio consentendo a tutti di leggere le parole della difesa dell’Avv. Tina Lagostena Bassi durante uno dei processi per stupro che più di altri ha colpito il nostro Paese.

Era la fine degli anni Settanta, amici miei, e nonostante le lotte che uomini e donne hanno compiuto in questi anni, le leggi a tutela delle persone offese da questo tipo di reati, siamo immobili, fermi al punto di partenza. Ed allora io dico NO, e NO, ancora una volta. No al cospetto di una cultura sessista, patriarcale e di sopruso ed abuso che rende ancora una volta le donne, oggetti da possedere, da usare, da colpire, da ” silenziare”.

Siamo bambole a cui non è concesso il diritto di essere quello che vogliamo essere, di indossare quello che ci pare, di ballare libere in una discoteca, di bere e di ubriacarci, perché se poi ci accade qualcosa, se qualche maschio, agisce con forza, ci colpisce e ci tramortisce, siamo complici ed infondo ce lo siamo cercate. Al maschio non è attribuita alcuna responsabilità e se un padre sente il bisogno della difesa pubblica scaricando sulla donna, ogni colpa, lo abbracciamo, lo giustifichiamo, perché agisce in nome della salvaguardia del sentimento familiare, del proprio nucleo, della propria carne, del proprio sangue.

Non conta più nulla, e non si discute, per carità, sulla presunzione di non colpevolezza sino a sentenza che sia passata in giudicato, si ragiona sulle parole, sui gesti, sulle immagini, sul diritto della donna di denunciare, nei tempi che ritiene più giusti perché il suo corpo e la sua anima siano in grado di sopportare gli sguardi, i giudizi, le scrollate di spalle, le alzate di occhi. Un martirio nel martirio, al danno anche la beffa. E le parole delle donne non contano, le parole delle mogli che subiscono abusi familiari per una vita sono solo ” esagerazioni”, come se quegli atti fossero normali e dovuti, perché il maschio ha il diritto di possedere quel corpo, come se si trattasse di un arredo della casa familiare.

Siamo nate per appagare il maschio, per dare piacere, anche se non lo desideriamo, è questo il messaggio che passa in quelle parole, ed in molte altre. Ripeto qui non si celebra un processo nei confronti di qualcuno, si sottolinea la cultura, il terreno in cui nascono e crescono e si diffondono certi atteggiamenti. Le cicatrici sono elemento che dobbiamo portare sulla pelle con dignità ed in silenzio, coprendoci il capo, abbassando la testa ed accettando senza reagire.

Guai a gridare il nostro dissenso, guai a chiedere Giustizia, guai a chiedere che le Istituzioni e le donne in Politica prendano una posizione netta e non discutibile. Per carità, contano i giochi di partito e le alleanze, sono importanti le poltrone, i posti, non altro. Vi confesso che nello scrivere piango e tremo, tremo per le future generazioni, tremo per le donne, mie compagne che si battono tutti i giorni senza risparmiarsi e che pagano un prezzo altissimo, perché hanno deciso di non omologarsi.

Non è vero, non è responsabilità solo dei maschi che agiscono come bestie, è una nostra responsabilità quella di non costruire cordoni a difesa delle altre. E con rammarico devo ammettere che non ci siamo evolute, siamo rimaste ferme in attesa che altri decidessero per noi cosa sia più giusto fare e come vivere. Non bastano le leggi, non bastano le commissioni, non bastano i video, o le giornate in memoria, occorre un radicale mutamento anche del lessico che nasce nelle scuole, nelle famiglie, nei contesti in cui cresciamo. E’ anche e soprattutto una nostra “Colpa”.

Quello che più mi agita è che una volta smaltita la sbornia tutto resti immutato, e vi pongo una domanda, quante donne che hanno vissuto un abuso, dopo aver ascoltato quelle parole deliranti o letto i commenti social di apprezzamento avranno il coraggio di uscire allo scoperto e di chiedere aiuto?

“lo stupro è un mezzo di soppressione della donna culturalmente incoraggiato. Legalmente diciamo di deplorarlo, ma in senso mitico gli diamo un manto romantico e lo perpetuiamo, e privatamente lo scusiamo e lo ignoriamo.”

Nasco in un piccolo paese della provincia di Avellino, con il sogno di girare il mondo e di fare la giornalista, sullo stile della Fallaci. Completamente immersa, sin dalla più tenera età nei libri e nella musica, ma mai musona o distante dagli altri. Sempre con una battaglia da combattere, sempre con l’insolenza nella risposta verso gli adulti o verso chi in qualche modo pensasse che le regole non potessero essere afferrate tra le dita e cambiate. Ho sempre avuto la Provincia nel cuore, ma l’ho sempre vissuta come un limite, una sorta di casa delle bambole troppo stretta, per chi non voleva conformarsi a quello che gli altri avevano già deciso io fossi o facessi. Decido di frequentare Giurisprudenza, con il sogno della Magistratura, invaghita del mito di Mani Pulite, ma la nostra terra è troppo complicata, per non imparare presto ad essere flessibile anche con i sogni e le speranze, per cui divento avvocato con una specializzazione in diritto del lavoro prima e diritto di famiglia poi, ma anomala anche nella professione e mal amalgamata alla casta degli avvocati della mia città. La politica e la cultura , i cuori pulsanti della mia esistenza, perché in un mondo che gira al contrario non posso rinunciare a dire la mia e a piantare semi di bellezza. Scrivo per diletto e per bisogno, con la speranza che prima o poi quei semi possano diventare alberi.