Il linguaggio ed espressività nella scrittura

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di Claude De Bray

Il linguaggio è cosa molto complessa ed articolata; essa può essere forbita quanto mendace ma quasi sempre è accompagnata dalla gestualità.

È la gestualità che, innata nell’uomo, rende il linguaggio difficilmente ingannevole. Il corpo nella sua gestualità associata al linguaggio rende il fluire di pensieri e parole più o meno meritevoli di essere ascoltate.

Comprendere e avere la percezione del vero o quantomeno del realistico è determinato dall’intersecarsi di svariati sensi non ultimo quello visivo.

La scrittura è un qualcosa di molto più complesso e certamente compito più ardito.

Esso è legato a fondamenti molto diversi quali, ad esempio, la fantasia, la capacità di adattarsi ed al fluire del pensiero dell’autore.

Un testo scritto secondo i canoni impone alla scrittura di essere fluente, come il linguaggio, ma deve essere anche comprensibile al maggior numero di persone.

Deve essere semplice con termini appropriati e soprattutto accompagnato da pause e interpunzioni al posto giusto nel momento giusto.

Soprattutto deve usare termini consoni non volgari o quantomeno ridotti agli stretti necessari.

Valicare queste regole pone la scrittura, anzi la relega, nell’oblio dell’incomprensibile.

Intanto però il linguaggio si evolve e subisce metamorfosi spesso miscellanea di nuove espressioni, contaminazione di dialetti e lingue differenti dalla nostra.

Nella scrittura, secondo molti, ciò non è possibile rivelandosi discutibile e da molti definita volgare.

Certo, tutto ciò non riguarda la pittura che invece subisce evoluzioni continue partendo dai disegni rupestri degli uomini primitivi fino alla pittura avanguardista, del neorealismo, dei macchiaioli e tanti altri.

Oggi è pittura anche la Pop Art ed i murales sono definiti arte.

Tutti sono stati oggetto inizialmente di feroci critiche ma oggi chi non vorrebbe uno Chagall o un Gauguin come un Klimt.

Insomma i pittori hanno, nel tempo, sviluppato nuove forme utilizzando colori, tempere, a loro piacimento e addirittura associando materiali diversi.

Amo scrivere e ancor più leggere ma non digerisco questa cosa che la scrittura debba essere relegata a canoni che ne impediscano l’evoluzione come nel linguaggio.

La libertà espressiva, indice di una libertà mentale, deve essere predominante e non limitante pregiudicando l’essere dello scrittore privandolo del suo essere e delle sue radici culturali quanto di quelle relative al contesto sociale e ambientale in cui ha vissuto o viva; il fine è arrivare alla parte mancante che ritroviamo nel linguaggio ovvero l’espressività.

Tale limitazione priva al lettore del cotesto socio-culturale che dà origine a pensieri e parole dello scrittore limitandolo nel poter adeguarsi o immedesimarsi nei personaggi quanto nel modo in cui scrive l’autore.

Dunque si è costretti a scrivere “ti mando a quel paese” mentre lo scrittore avrebbe riassunto il tutto con un “vaffanculo”; ciò però è considerato volgare quanto lontano dai canoni.

La domanda quanto la risposta è tutta riassunta in questo e non voglio credere che un lettore non abbia mai detto “vaffanculo” ma “vai a quel paese”; dunque il linguaggio e l’espressività corrente non trova riscontro nella scrittura in quanto ancora intrisa di quel moralismo e bigottismo che relega la scrittura agli appartenenti ad una casta colta quanto ipocrita ligia ai dettami della segale e del tre bestie; chi vuol intendere intenda.

Ci provo da tanto tempo ad intersecare dialetti e il moderno linguaggio di tutti i giorni ma viene interpretato come volgare non come avviene nelle correnti pittoriche.

Insomma nella scrittura persiste il bigottismo, la falsa moralità e quella incoerenza che è lontana dal linguaggio di tutti i giorni.

Scrivo da tanto tempo, soprattutto per me stesso in quanto butto giù il veleno e trovo pace ignorando ed escludendo a priori un possibile lettore del quale non saprei cosa farmene, salvo qualche eccezione ho pubblicato giusto un paio dei miei centinaia di scritti accumulati da anni.

Non li pubblico in primis perché odio gli editori fedele al pensiero dell’antilibro e soprattutto vorrei scegliermi la platea di lettori, cosa del tutto impossibile.

Non sopporterei che un mio libro vada nelle mani di un saccente, di un moralista, tra le mani di chi ha letto “cinquanta sfumature di grigio” e questo non di certo perché io sia un grande scrittore.

Vorrei un lettore e giudice imparziale che non releghi, come ha fatto qualcuno, a supporre che ambissi ad essere un nuovo Bukowski, lo stesso che avrà letto al massimo “Post Office” ignorando che come per altri scrittori li ho tutti.

Personalmente amo leggere ma prima di intraprendere il lungo cammino della lettura mi documento sull’autore, il contesto ed il periodo in cui è vissuto e soltanto dopo affondo nelle sue parole.

Sono un lettore attento o almeno lo ero, quasi maniacale, e odio le persone superficiali, quelle che saltano una prefazione o un incipit e sparano la loro cazzata così tanto per dire la banalità del secolo senza comprendere riferimenti a fatti storici o di altri autori.

Non avete idea di quante volte nel presente testo avrei voluto scrivere “a me mi” o “cazzo” come “strafottuto” o “assaje” e finanche “vaffanculo” ed avrei omesso interposizioni, cosa che comunque ho fatto ugualmente.

L’unico fatto concreto è che non sono uno scrittore e che non esiste un lettore in grado di comprendere la mia non scrittura alla quale si aggiunge, come sempre, la mia poca considerazione che nutro per gli altri; posso però assicurarvi che sopravvivrò anche a questo perché in fondo

“non ho creduto in niente” cit.

(di chi è la citazione manco ve lo dico, sarebbe inutile come, del resto, quello che scrivo)

            Andate…in pace

Nato a Napoli non ho frequentato scuole degne di tale nome. Al compimento dei diciott’anni dopo il conseguimento del diploma sono subito stato assorbito dal lavoro soprattutto per motivi di sostentamento precludendomi la cosiddetta “Laura”. In compenso ho la laurea della strada, un master in sopravvivenza e vivo tutt’ora di espedienti. Amo leggere più che scrivere ed avendo raggiunto un’età che mi concede il lusso di dire ciò che penso non percorro strade che conducono al perbenismo bensì all’irriverenza. Non amo molto questo tempo e la conseguente umanità per cui sono definito un misantropo; ciò non toglie che la solitudine non precluda l’essere socievole e come tutti i solitari le persone le scelgo; il resto le guardo da lontano, senza avvicinarmi troppo. Se è vero che ogni mattina ognuno di noi fa una guerra per combattere il razzista, il moralista, il saccente che vive in noi, non ho alcun interesse nello scoprire che qualcuno questa guerra l’abbia persa e dunque la evito. Il resto sono cazzi miei e non ho intenzione di dirvi altro altrimenti, come Sanguineti, dovrei lasciarvi cinque parole che vi assicuro non vi piacerebbero.