Preti e Stato contro la camorra: si può e si deve fare

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di Padre Maurizio Patriciello *

Varcammo insieme la porta del Seminario di Capodimonte. Eravamo un gruppo di giovani sui trent’ anni. Alcuni appena laureati; altri – come me, Angelo, Pietro e Francesco – provenienti dal mondo del lavoro. In facoltà teologica studiammo tante cose; niente, però, che riguardasse quella realtà illogica, violenta, prepotente, sanguinaria che va sotto il nome di camorra. Nessuno di noi avrebbe immaginato di essere indicato un giorno con quel termine insopportabile di «prete anticamorra», il quale semplicemente non esiste. Esistono i preti senza aggettivi, al servizio di Cristo, della Chiesa, dei fratelli. Abbiamo dovuto imparare sul posto. A nostre spese. Facendo mille errori.

Don Angelo Berselli oggi è parroco a Forcella. Pochi giorni fa ha concelebrato il funerale di Maikol Giuseppe Russo, ultima vittima innocente di una guerra che insanguina le strade di Napoli. A riguardo ha rilasciato un’intervista che sta facendo discutere: «Quando mi dicono “sei un prete anti-camorra”, io rispondo scherzando: “Vi sbagliate, io sono per la camorra. Da queste parti è la sola cosa che funziona”». Le parole chiare, ironiche, taglienti non lasciano spazio ad alcun dubbio. La sua è una disperata provocazione per richiamare chi di dovere alle proprie responsabilità. Infatti aggiunge: «Dico che dovremmo imparare dalla camorra che si prende cura dei detenuti, delle famiglie, di chi non ha lavoro…». Il mio confratello sta dicendo che la camorra è un “sistema” che funziona in una città dove troppe cose non funzionano. Che provvede ai suoi affiliati e alle loro famiglie anche quando finiscono in galera. Angelo non sta elogiando la camorra – ci mancherebbe – ma la scaltrezza dei suoi uomini e i mezzi che sanno inventare per rimanere in vita. Mezzi che dovrebbero essere invece nelle mani di coloro cui sta a cuore la democrazia, la pace, la legalità.

Forcella, don Angelo Berselli.previewDon Angelo è un prete che soffre per l’impossibilità di salvare tanti suoi ragazzi. Il suo sogno – che è il sogno di tutte le persone perbene – si potrebbe realizzare, se lo Stato prendesse davvero in mano la situazione. Se iniziasse, finalmente, una bonifica sociale di cui da anni si avverte la necessità. La Chiesa c’è. I parroci, i volontari ci sono. Ma hanno bisogno di essere “agganciati” alle istituzioni per incidere seriamente sul territorio. Sulle vittime innocenti della camorra si sorvola con troppa facilità. Si chiude volentieri un occhio. A volte tutti e due. Eppure sono tante. Troppe. Quel sangue versato chiede giustizia. Non è facile fare il parroco a Forcella, alla Sanità, ai Quartieri spagnoli. O alzi bandiera bianca e dici: «Non ce la faccio, vado via…», o rimani inventandoti la vita e il ministero. In genere si opta per la seconda ipotesi. Certo, una sola vita salvata vale quanto il mondo intero, non c’è dubbio. Ma quelle bare bianche dei morti ammazzati dalla camorra ti tolgono la pace e il sonno. E quando a cadere sotto i colpi sparati all’impazzata da camorristi imberbi e cocainomani, è un innocente, il dolore, la rabbia, l’indignazione si fanno prepotenti.

La voce di don Angelo oggi graffia come quella di don Franco Rapullino, quando dall’altare urlò: «Guagliù, fuitevenne!». Ragazzi, scappate. Davvero don Franco incitava i giovani ad abbandonare la città? O forse stava dicendo alle autorità: «Avete capito che stiamo perdendo la nostra gioventù? Quando vi decidete a intervenire seriamente? ». Coloro che governano Napoli, la Campania, l’Italia debbono prendere di petto questo dramma e giungere a una soluzione che sia veramente tale. Debbono poter dire ai giovani: «Ragazzi, si volta pagina. Chi ha voglia di lavorare onestamente si faccia avanti. Venite, siate i protagonisti di un mondo nuovo». Venga, lo Stato, ad onorare la memoria di Maikol. È suo dovere. Venga ad ‘abitare’ tra le case dei poveri. Venga ad aiutarli prima di vederli fagocitati dalla mano nera. Arriviamo prima. Arriviamo adesso. Arriviamo insieme. Ce la possiamo fare. Insieme ce la possiamo fare. E dobbiamo.

*Articolo apparso su Avvenire, mercoledi 13 Gennaio 2015

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