Alla ricerca dell’orgoglio perduto

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di Mariavittoria Picone

Cammino nei luoghi della mia città che mi sono più estranei.

Guardo i palazzi, le facce della gente, i loro gesti;

penso a tutti quelli che hanno provato a raccontarli.

Napoli è quello che siamo nel momento in cui ne parliamo,

offre una strada diversa per ogni sentimento,

un cielo che cambia a ogni stagione della nostra vita.

 

Il rientro dalle vacanze estive, come il rientro da ogni viaggio, è sempre un momento di abbandono, di ricongiungimento: i luoghi familiari, gli odori e i suoni che ci appartengono, tornano a proteggerci. Lo stato di grazia, però, dura poco, quello che conosciamo ci spaventa meno, ma la lontananza dà una visione migliore e, come affetti da presbiopia emotiva, solo osservando a distanza ci rendiamo conto delle storture, dei difetti della nostra casa.

Conoscere nuove realtà, si sa, rende più consapevoli, e quindi più critici, porta ad un inevitabile gioco di confronti e valutazioni.

Così, più volte è capitato a noi napoletani di rientrare in città e deprimerci dopo i primi dieci minuti di filiale entusiasmo.

Napoli è una madre, chi la ama lo fa perché in essa si riconosce, anche se non ci è nato, perché si sente suo figlio. E proprio come avviene per una madre, noi che le apparteniamo spendiamo parole d’amore a profusione, ricche di retorica e morbosità, apparendo anche a volte ridicoli, ma non potremmo fare altrimenti.

I panni sporchi si lavano in famiglia, e qualcuno avrebbe voluto anche che si stendessero dentro, ma questa è un’altra storia, o forse è la stessa, quella di chi non si sente figlio. Perché gli altri non comprendono, non giustificano questo legame; noi li conosciamo i difetti della nostra città, ci fanno arrabbiare, ci mortificano, ma non li utilizzeremmo mai per fornire argomenti a chi non ha compassione, a chi usa questa cecità affettiva per deriderci o peggio, per portare tutto sul piano folkloristico.

Noi li conosciamo i difetti di Napoli, ma finiamo sempre per perdonarglieli, come si perdonano ad una madre.

Tornare a casa questo settembre è significato anche trovare una città sporca, piena di erbacce ai bordi dei marciapiedi, di alberi dall’aspetto aggressivo e barcollante e giardini pubblici chiusi; anche nelle strade della zona collinare, dove in genere c’è maggiore attenzione, maggiore cura rispetto ad altri luoghi della città, anche nella maestosa e rappresentativa piazza del Plebiscito sono spuntate piante tra i sampietrini. Per un attimo ho pensato che il Vomero, in vista della deriva estremista ecologista, potesse tornare ad essere il luogo di coltivazione di un tempo, accontentando una volta e per tutte chi bonariamente deride i parvenu vomeresi.

Insomma, Napoli è una madre, un po’ anziana, che abbiamo lasciato in una casa di cura, che non se n’è presa cura. Forse sarebbe il caso di tenerla con noi ed accudirla come merita, senza demandare ad altri, riacquistando il nostro senso civico. È ora di rimboccarci le maniche, fare ognuno la sua parte e pretendere quello che c’è da pretendere.

Mariavittoria Picone nasce in un caldo dicembre del 1970 a Napoli, dove vive e lavora. Ha pubblicato racconti e poesie su blog e riviste on line. Nel 2020 è uscito il suo primo romanzo Condominio Arenella (IOD Edizioni), accolto favorevolmente dalla critica e dai lettori. Nel 2021 pubblica, sempre con la casa editrice IOD, la raccolta di versi e pensieri Novantanove fiori selvatici. Sognatrice pragmatica, poetessa in prosa, sempre in bilico tra ordinarietà e magia, ironica e drammatica, si definisce un fiore selvatico, un'erba ostinata, nata tra il fuoco e l'acqua, tra un vulcano e il mare.