Antonio Salvatore. Dove la moda incontra la musica della terra. Sulle orme di Vinicio Capossela, tra la polvere e la grazia di un Sud che resiste nel tempo.

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La Redazione

Un giovane designer ricuce la memoria in abiti: dagli echi dell’Irpinia, una moda che canta.

La voce che viene dalla terra

C’è una musica che nasce dalla terra e continua a vibrare, anche quando tutto tace.

In Irpinia, dove le colline si spogliano al vento e i paesi respirano piano, quella musica ha trovato due custodi: Vinicio Capossela, che le ha dato voce, e Antonio Salvatore, ventiquattro anni, che la cuce nei tessuti come in una partitura silenziosa.

Entrambi partono dallo stesso silenzio e da quel silenzio fanno nascere bellezza.

Capossela ha cantato l’Irpinia come un mondo mitico e visionario, popolato di santi, briganti e fantasmi; Salvatore la abita come un laboratorio di identità, un luogo in cui la moda diventa gesto poetico e atto di resistenza.

«Non sono cresciuto ai margini del mondo, ma della narrazione», dice. «Abito la periferia delle cose: luoghi che non vengono guardati, ma che guardano tutto.»

L’apprendistato della disobbedienza

Napoli è la città in cui Antonio Salvatore impara a mettere in discussione il linguaggio della moda. All’Accademia della Moda “IUAD” studia, osserva, ma soprattutto resiste.

«Non volevo entrare nel meccanismo, ma capirlo per riscriverlo», racconta.

Le sue giornate scorrono tra stoffe, schizzi e domande: cosa significa davvero costruire un abito? Che forma può assumere un tessuto? Che memoria può contenere un abito?

Da quella riflessione nasce la sua estetica: una moda che non decora ma racconta, che non produce ma traduce.

Come un musicista che conosce la tradizione per reinventarla, Antonio impara a disobbedire con grazia, cercando nella crepa il senso del suo gesto.

“Fate Presto”. Ricucire il tempo

Il suo progetto di tesi, recentemente presentato anche alla Fashion Graduate di Milano, prende nome da un celebre titolo apparso sul Mattino dopo il terremoto del 1980: Fate presto! Un grido inciso nella memoria collettiva dell’Irpinia.

Quel terremoto, che Antonio non ha vissuto, continua però a vibrare nel paesaggio e nei racconti. «In Irpinia erediti la ferita anche se non hai visto il crollo. È una memoria che ti abita.»

Fate Presto è un atto di riparazione: la rovina si trasforma in bellezza, la crepa in linguaggio.

Ogni capo è cucito come si ricuce un ricordo, ogni tessuto porta una traccia del passato.

È la stessa logica che muove le Canzoni della Cupa di Capossela: trasformare la polvere in canto, la fine in forma.

I maestri dei paesi invisibili

È da Vinicio Capossela che parte la costellazione dei maestri di Antonio Salvatore.

Nel suo immaginario, il cantautore rappresenta l’origine di un linguaggio: quello che trasforma la polvere in canto, la lentezza in gesto di resistenza. Accanto a lui, Vito Teti e Franco Arminio compongono un coro di Sud che non si piange addosso, ma si racconta. Tutti e tre insegnano che la marginalità può diventare visione, che i luoghi dimenticati non sono vuoti ma pieni di presenze, e che restare può essere una forma di rivoluzione.

È in questa eredità poetica che Antonio riconosce la propria voce.

«La mia moda vuole restituire voce a chi resta. Non è nostalgia, è cura», dice.

Come un canto antico che risuona sottopelle, i suoi abiti raccontano chi non parte, chi custodisce, chi continua a credere anche quando il mondo cambia direzione.

Briganti, materia e memoria

Nei suoi lavori tornano i briganti: figure ribelli, eretiche, cariche di orgoglio. Non sono eroi romantici, ma uomini e donne che difendono la propria esistenza ai margini della storia.

«Sono la mia allegoria del margine», dice Antonio Salvatore. «Chi resta, chi non si lascia cancellare.»

Le sue mani scelgono tessuti che portano già un passato: denim tessuto su telai antichi, lino recuperato da lenzuola dimenticate, pelli provenienti dagli scarti dei grandi marchi.

«Non per ideologia, ma per rispetto. Ogni materiale ha già vissuto, io mi limito a continuarlo.»

Antonio Salvatore

La sua moda è fatta di tempo, come la musica popolare di Capossela: una forma che non inventa, ma ascolta.

Restare per cambiare

Oggi Antonio Salvatore vive tra Napoli e Carife. Lavora per Demiurgo, marchio indipendente di Solofra, dove l’artigianato diventa un modo per pensare lentamente.

Dopo la Fashion Graduate di Milano, molti gli hanno suggerito di trasferirsi altrove. Ma lui ha scelto di restare.

«Non si cambia nulla dove tutto è già cambiato. Si cambia restando dove sembra non succedere mai niente.»

È un principio che potrebbe essere una strofa di Capossela: restare come forma di rivoluzione, come fedeltà al tempo.

In un’epoca che corre, Antonio sceglie la durata; in un mondo che consuma, lui ripara.

Epilogo. La musica che resiste

Nelle canzoni di Vinicio Capossela e negli abiti di Antonio Salvatore sembra scorrere una stessa linfa: la volontà di dare voce a ciò che resta in silenzio.

Entrambi scavano nella memoria per trasformarla in linguaggio. Entrambi raccontano un’Italia interiore, fatta di crepe e di bellezza, dove l’artigianato diventa forma di pensiero.

La moda, per Antonio, è una ballata di fili e memoria: affiora dal silenzio dei margini e ritorna alla terra, portando con sé il suono di ciò che resiste.

E in quell’eco si riconosce la lezione più profonda dell’Irpinia di Capossela: che il futuro, a volte, non è altrove — ma proprio dove qualcuno sceglie di restare.

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