Chi incide sul cambiamento?

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di Maria Rusolo – Foto di Louisa Cannell; www.louisavcannell.com

Una delle lezioni più importanti della vita è quella di imparare l’indipendenza: comprendere la libertà, che significa emancipazione dall’attaccamento, dai risultati, dalle opinioni e dalle aspettative.

Siamo davvero ad un bivio della nostra esistenza come esseri umani, non come donne o come uomini e ben aldilà del concetto di genere, siamo dinanzi alla necessità di rendere effettivi i cambiamenti che abbiamo reso disponibili nelle dichiarazioni di principi senza preoccuparci poi di difenderli nella realtà.

Abbiamo lottato per uscire dagli steccati, nei quali ci avevano rinchiusi, decidendo per noi cosa essere, come essere e quali aspettative avere e ruoli esercitare, ci siamo rimboccati le maniche per avere più diritti e li abbiamo anche ottenuti, senza però che qualcuno si preoccupasse di capire poi come si sarebbero espressi e sviluppati nella dimensione quotidiana che ci circonda e di un mondo che cambia costantemente.

Siamo partiti dalla Rivoluzione Industriale e dalla crescita dei consumi e della produzione, e dall’impegno che non era solo quello dei campi e del focolare domestico, abbiamo retto le economie in periodo di guerra, ed una volta mostrato tutto il nostro valore, pensavamo che tutto sarebbe stato in discesa ed invece le decisioni si continuavano a prendere altrove e venivamo accantonate in nome della normalità e della preferenza del maschio. Le lotte non erano più quindi quelle di tutti gli esseri umani in difficoltà, ma riacquistavano una connotazione di genere, perché non vi sono rivendicazioni che si fanno in tempo di emergenza e senza incidere sul contesto sociale. C’è un dato che però vorrei sottolineare, noi donne scendevamo in piazza, anche con i figli legati al collo, rivendicavamo gridando e con forza per quello che sembrava banalmente giusto, chiedevamo di poter decidere del nostro corpo e della nostra anima e di uscire dalla logica del possesso familiare, chiedevamo di succedere nelle eredità e di avere lo stesso ruolo, con doveri e diritti di fratelli e mariti, certo lo facevamo anche attraverso segni esterni di identificazione, gli abiti, i capelli, i simboli sul viso, il trucco.

Ci scostavamo dalla immagine patinata che ci vedeva adatte a conquistare il maschio ai fini della prosecuzione della specie. Oggi c’è un atteggiamento vecchio nelle nuove generazioni, tra quelle che si definiscono influencer, si concentrano nella rivendicazione della parità attraverso la libertà dalle regole estetiche, il pelo che spunta dall’ascella o sulle gambe, il reggiseno in bella mostra al tavolo di un ristorante, i capelli bianchi o la libertà sessuale. Vorrei dire che in realtà non è solo già visto e rivisto, ma che oggi ha poco senso, le adolescenti da ormai oltre un decennio non stanno dietro all’etichetta esteriore, non subiscono compressioni sul proprio corpo, magre o formose, si vestono come sentono senza minimamente arrossire a qualche commento che le vorrebbe perfette, ho la sensazione che siano già più libere dalle costrizioni sociali di quanto fossimo noi, più vicine alle nostre madri che gridavano per le strade, che a noi che subivamo le pressioni del piacere a tutti i costi.

Detto in tutta onestà chi potrebbe incidere sul cambiamento, grazie ad una visibilità acquisita per un qualsiasi motivo, che non mi interessa analizzare, finisce per non portare nulla di nuovo alle nostre battaglie, al contrario, mi sembrano più attaccate al raggiungimento di qualche follower che alla volontà di creare una base seria di rinnovamento. Insomma dovremmo ispirare le nuove generazioni, spingerle a pretendere parità salariale, la libertà di autodeterminarsi, di ricorrere ovunque e senza umiliazioni alla interruzione di gravidanza o ad un posto in Parlamento e ci leghiamo alle stesse immagini delle femministe degli anni Sessanta.

All’epoca avevano un senso certi atteggiamenti, anche una gonna più corta o un pantalone da uomo, oggi sono un cliché estetico senza effetti concreti, che non aggiunge ed anzi ridicolizza una storia seria, fatta anche di dolore e di repressione. Continuo a guardarmi intorno ed a vedere un mondo nel quale la normalità rappresenta la eccezione e il dettaglio diventa più importante del contesto generale. Quante donne guidano Comuni o aziende di grandi dimensioni, quante saranno elette alle prossime politiche, quante guideranno musei ed atenei o strutture sanitarie? Ecco più che il pelo sul labbro ci vorrebbe un po’ di pelo sullo stomaco. Mi si perdoni quella che sembra una battuta, ma che purtroppo non lo è.

Che cosa pretende d’essere
Che cosa vuol sembrare?
Dove vuole arrivare?»
La risposta è molto semplice:
alla parità con l’uomo
in tutte le cose,
trattare con lui
e sopra uno stesso piano
i problemi
che interessano tutti e due.

 

 

Nasco in un piccolo paese della provincia di Avellino, con il sogno di girare il mondo e di fare la giornalista, sullo stile della Fallaci. Completamente immersa, sin dalla più tenera età nei libri e nella musica, ma mai musona o distante dagli altri. Sempre con una battaglia da combattere, sempre con l’insolenza nella risposta verso gli adulti o verso chi in qualche modo pensasse che le regole non potessero essere afferrate tra le dita e cambiate. Ho sempre avuto la Provincia nel cuore, ma l’ho sempre vissuta come un limite, una sorta di casa delle bambole troppo stretta, per chi non voleva conformarsi a quello che gli altri avevano già deciso io fossi o facessi. Decido di frequentare Giurisprudenza, con il sogno della Magistratura, invaghita del mito di Mani Pulite, ma la nostra terra è troppo complicata, per non imparare presto ad essere flessibile anche con i sogni e le speranze, per cui divento avvocato con una specializzazione in diritto del lavoro prima e diritto di famiglia poi, ma anomala anche nella professione e mal amalgamata alla casta degli avvocati della mia città. La politica e la cultura , i cuori pulsanti della mia esistenza, perché in un mondo che gira al contrario non posso rinunciare a dire la mia e a piantare semi di bellezza. Scrivo per diletto e per bisogno, con la speranza che prima o poi quei semi possano diventare alberi.