Il dado è tratto: il Governo Renzi ha deciso di chiedere la fiducia sul provvedimento, l’Italicum, che dovrà modificare la legge elettorale vigente.
La scelta renziana ci appare discutibile sul piano politico, anche indipendentemente dalle ragioni di natura costituzionale, che avrebbero suggerito di non assumere una simile decisione su di una materia – notoriamente – di competenza parlamentare.
Infatti, il voto di fiducia viene dopo un’altra discutibilissima decisione, assunta nel corso della settimana appena passata, quando il PD sostituì, in Commissione, tutti i suoi parlamentari, che non si identificavano nell’Italicum e che avevano ipotizzato di proporre degli emendamenti.
Lo spettacolo, che sta andando in scena oggi a Montecitorio, mostra invero la debolezza di un Esecutivo, costretto a ricorrere alla fuorviante fiducia, pur di acquisire la certezza che la legge vada in porto, senza ulteriori modifiche, che imporrebbero, altrimenti, un ritorno al Senato del provvedimento in esame.
I conti, all’interno del PD, vengono quindi regolati in modo definitivo: la minoranza bersaniana e cuperliana viene ridotta ad un manipolo di deputati e senatori, che non possono non votare la fiducia all’Esecutivo, dal momento che, eventualmente, in caso contrario, essi diverrebbero comunque irrilevanti, perché, finanche senza il loro voto favorevole, il Dicastero continuerebbe a rimanere in carica, visti i numeri amplissimi, che il PD vanta a Montecitorio.
Renzi, pertanto, ricorrendo a questo stratagemma, vince la battaglia, sicuro di poter vincere – in particolare – la guerra.
Fuor di metafora, è evidente che, approvata la nuova legge elettorale, il Parlamento in carica diviene obsoleto e delegittimato, per cui si impone, quanto prima, un ricorso anticipato alle urne, per consentire agli Italiani di scegliere i parlamentari in virtù del dispositivo dell’Italicum.
Ma, sovente, si realizza quella che, in filosofia, si chiama eterogenesi dei fini, per cui un’azione, nata per produrre un effetto, ne produce un altro, ben diverso da quello sperato e previsto.
Lo strappo, prodotto all’interno del PD, infatti, è di importanza epocale, per cui, a questo punto, la minoranza, mortificata con il voto di fiducia, non può che uscire dal partito e dar vita ad una nuova formazione politica, che contribuisca alla nascita di una Sinistra diversa da quella che Renzi, troppo frettolosamente, ha vilmente rottamato.
Infatti, Civati, Bersani, Fassina, Cuperlo non hanno altra scelta che quella di uscire, immediatamente, dalla maggioranza di Governo e dal partito, che hanno contribuito, in modo decisivo, a fondare, visto che il gesto odierno di Renzi serve a colpire, proprio, i suoi avversari interni, che sono stati messi definitivamente all’angolo.
Ma, per dirla alla maniera degli antichi Romani, “cui prodest”?
A chi giova uno strappo così forte, che non può non avere conseguenze nell’immediatezza della campagna elettorale per le Regionali?
È chiaro che quanti, nei prossimi giorni, usciranno dal gruppo parlamentare del PD, non potranno non prendere le distanze dai candidati renziani nelle Regioni, dove si andrà al voto il 31 maggio, ed allora il dato elettorale di molte aree, dove il risultato appare tuttora in bilico, non può che penalizzare il PD.
Conveniva, dunque, rompere con una parte importante del proprio partito ad un mese, circa, da un test così significativo?
Inoltre, approvata la nuova legge elettorale per la Camera, non si può non ipotizzare che, alle prossime elezioni politiche, Renzi dovrà scegliersi dei compagni di viaggio, insieme ai quali raggiungere e superare il traguardo del 40% dei consensi, necessario per acquisire il fatidico premio di maggioranza e governare il Paese in modo, pressoché, solitario.
Ma, chi potrà accompagnare Renzi in un simile percorso, dato che egli ha fagocitato tutti quelli che, con lui, potevano avviare un iter comune: da Vendola ai Centristi, da Landini a Bersani, sono tutti vittime di un istinto famelico, che ha portato il Premier a divenire, ad un tempo, il dominus assoluto delle nostre istituzioni, ma anche – al contempo – un leader che soffre di una solitudine infinita, visto che, ad eccezione dei poteri forti della nostra finanza, nessuno più intende sostenerlo, a partire dalla stessa pubblica opinione, che – un anno fa – pure lo premiò oltremodo, in occasione delle elezioni europee.
Nei prossimi giorni, lo sciopero indetto dai professori per il 5 maggio segnerà un momento di discontinuità molto rilevante, visto che, per la prima volta in Italia da molti decenni, si fermerà uno dei settori vitali della nostra Pubblica Amministrazione, peraltro storicamente bacino elettorale del PD e dei partiti, da cui esso è stato generato.
Le elezioni regionali, quindi, verranno dopo mesi di intense lotte parlamentari e di piazza, che ineluttabilmente segnano la vita di un Governo, mai nato da un consenso popolare effettivo.
Renzi saprà, da solo, fronteggiare una simile opposizione, ad un tempo sociale e politica?
Noi crediamo che, con la decisione odierna, egli abbia tracciato il solco definitivo fra sé e l’opinione pubblica del Paese, perché mai si era assistito allo spettacolo odierno, che vede il principale partito di Governo rinunciare, scientemente, ad una parte di se stesso, pur di approvare un dispositivo legislativo, che peraltro puzza di incostituzionalità.
Certo è che, se lo spirito critico degli Italiani negli ultimi tempi si era sopito, ora ci sono molte ragioni, in virtù delle quali gli stessi possono – e devono – riaprire gli occhi, valutando i destini della nostra democrazia, oltreché il senso civico di chi ci governa, sempre più calpestato da chi dovrebbe, invece, difenderlo e renderlo più ridondante.
Rosario Pesce