I rappresentanti del popolo

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di Maria Rusolo

“Chiamare i deputati e i senatori i «rappresentanti del popolo» non vuol più dire oggi quello che con questa frase si voleva dire in altri tempi: si dovrebbero piuttosto chiamare impiegati del loro partito.”

C’era una volta un mondo diverso, fatto di speranza, di crescita, seppure difficile, di costruzione di un sistema che mirasse a creare una base comune di diritti, per tutti. C’era la volontà di guardarsi in faccia dopo la Guerra e di capire che qualunque cosa potesse accadere nel mondo, il monito doveva essere uno ed uno soltanto ” Mai più guerra”, e perché ciò avvenisse, occorreva ricercare di superare la fame, la povertà umana e culturale, aprire le scuole, gli ospedali, consentire a i giovani di andare oltre la propria origine.

In questa logica si strutturavano i partiti, in un dibattito serrato ed in un rapporto diretto ed apprezzabile con gli elettori. In tal senso basti leggere qualche pagina dei diari di Andreotti, per comprendere quanto pedalassero i politici durante le campagne elettorali nei collegi di appartenenza, di quante battaglie per i diritti civili e sociali hanno caratterizzato gli anni settanta ed ottanta, che senza timore di smentita può essere definita la vera stagione delle riforme. Esistevano uomini non scatole, esisteva una classe dirigente caratterizzante che riconosceva il valore della rappresentanza, che immaginava una Europa Forte e solidale.

Uomini e donne che lavoravano, crescevano ed immaginavano orizzonti senza confini. Si affermava un nuovo modo di rapportarsi alle cose, ciascuno con il proprio ruolo anche nelle contrapposizioni feroci. Il muro di Berlino cadeva sotto i colpi di una nuova speranza, sotto i colpi di un afflato che avvicinava persone lontane solo geograficamente. Sentivano tutte le generazioni che avevano ormai superato i conti della storia, e pur guardando al passato, erano pronti all’avvenire.

Poi qualcosa si è rotto, le grandi stagioni delle inchieste giudiziarie hanno completamente capovolto i ruoli, e tutto si è trasformato in una maleodorante palude, che non ha saputo canalizzare la violenza ed il disgusto degli oppressi e dei traditi. Nessuno nega che parte di coloro che detenevano il potere in quella fase avessero abusato del sistema di cui erano protagonisti, ma spesso quando la furia è cieca si rischia di gettare l’acqua sporca con il bambino. L’opinione pubblica ha cavalcato l’onda della indignazione senza fornire una giusta traiettoria ad una comunità e si è finiti per smettere il ruolo di guida, per divenire capo popolo abbracciando, l’idea che le masse sono più utili quando le fai impazzire, piuttosto che quando dai loro una speranza ed una corretta direzione.

Uno tsunami senza precedenti ha distrutto l’ossatura dello stato di diritto, e la legislazione è diventata schizofrenica e senza fiato. Qualunque sportivo potrà dire che senza una corretta disciplina non si vincono le competizioni. La stagione del movimentismo ha sradicato ogni matrice culturale e storica del nostro Paese, e dalla solidarietà verso l’altro siamo passati alla lotta del diverso ed all’abbattimento del debole. Per ripartire occorrono riforme strutturali della rappresentanza, riforme dirette a garantire la partecipazione politica di tutti indipendentemente dal censo o dalla famiglia, altrimenti anche il potere politico sarà trasferito come eredità in successione legittima dal padre al figlio, come accade spesso, in Campania.

Se non si mette mano a questo aspetto della vita civile della nostra nazione, avremo una larga fetta della popolazione che continuerà a disertare le urne convinta di non poter decidere i cambiamenti, continueremo ad avere giovani che non si sentono minimamente coinvolti dalla vita politica, che rinunciano ad avere aspirazioni per il futuro, avvolti da un mantello di solitudine e di silenzio. Non è possibile giocare ancora con carte truccate, con la stessa classe dirigente, che cambia abito ad ogni occasione, ammantandosi di presunta pulizia per poi continuare a fare sempre le stesse cose, identici a se stessi, completamente disinteressati al benessere ed alla crescita collettiva.

Deve essere una regola tassativa, la gestione dei partiti viene assegnata per merito, niente uomini soli al comando e basta logiche dirette all’accaparramento di chi i voti li conquista da decenni con clientele e mezzucci vari. Prima di qualsiasi programma, prima di qualsiasi opinione, questa è la condizione senza la quale non si supera l’indifferenza e la rinuncia delle nuove generazioni. Altrimenti cari miei abbiamo perso tutti, non ieri, non oggi, ma domani.

“Ogni partito esiste per il popolo e non per se stesso.”
(Konrad Adenauer)

Nasco in un piccolo paese della provincia di Avellino, con il sogno di girare il mondo e di fare la giornalista, sullo stile della Fallaci. Completamente immersa, sin dalla più tenera età nei libri e nella musica, ma mai musona o distante dagli altri. Sempre con una battaglia da combattere, sempre con l’insolenza nella risposta verso gli adulti o verso chi in qualche modo pensasse che le regole non potessero essere afferrate tra le dita e cambiate. Ho sempre avuto la Provincia nel cuore, ma l’ho sempre vissuta come un limite, una sorta di casa delle bambole troppo stretta, per chi non voleva conformarsi a quello che gli altri avevano già deciso io fossi o facessi. Decido di frequentare Giurisprudenza, con il sogno della Magistratura, invaghita del mito di Mani Pulite, ma la nostra terra è troppo complicata, per non imparare presto ad essere flessibile anche con i sogni e le speranze, per cui divento avvocato con una specializzazione in diritto del lavoro prima e diritto di famiglia poi, ma anomala anche nella professione e mal amalgamata alla casta degli avvocati della mia città. La politica e la cultura , i cuori pulsanti della mia esistenza, perché in un mondo che gira al contrario non posso rinunciare a dire la mia e a piantare semi di bellezza. Scrivo per diletto e per bisogno, con la speranza che prima o poi quei semi possano diventare alberi.