“Rock and roll is dead”. Il Rock è morto

Condividi su

di Mario Aiello

Ora, cercando di evitare la purga cognitiva dell’andare a scandagliare nel dettaglio il chi, quando, dove, come e perché che tanto desideriamo leggere per alimentare sia l’istinto pessimista che la sete di cultura musicale, mantenendo una linea più generica e fruibile possibile sul lungo termine, in quanto altrimenti finiremmo dopodomani annegati in un fiume di nozioni che poco si conciliano con l’obiettivo della critica – con aggiunta di nomi (pochi) solo dove strettamente richiesto – ecco quanto segue. Di nuovo, “Rock and roll is dead”. Non lo dico mica io, sia chiaro. Non ne avrei il diritto. Tra i pochi che, a ragion veduta, hanno espresso questa forte asserzione, c’è un tale Kravitz Lenny, cantante e polistrumentista americano. Sul tema ci ha scritto una canzone, un pezzo assoluto a mio avviso, dove c’è ben poco da spiegare e tutto è talmente palese da potersi permettere un allitterante ripetizione, solo per sottolineare il concetto. Il resto non serve.

A parte quel bel riff schitarrato pieno di groove. Da non confondere con “scatarrato, pieno di muco”. Lo so, è difficile ma se siamo riusciti a sentire Povia al Sanremo, possiamo farcela. Immagino, dunque, che quando uno degli esponenti del Rock contemporaneo, nella patria del Rock in generale (USA), si espone così già da trent’anni, qualcosa di vero esiste a prescindere. Oggi nello stivale stiamo “festeggiando” il ritorno in grande stile del Rock made in Italy. Lo scenario è un brodo sciapo, fatto con un dado di Trap all’ennesimo grado di concentrazione. Tralasciando qualche perla seria sparsa qui e là in quarant’anni da autori e interpreti diversi, si può serenamente dire senza timore di smentita che in questo paese non c’è la cultura del Rock. E chi dice il contrario mente sapendo di mentire o è ignorante. Mancano proprio le basi. D’altronde se è in atto un’emorragia incontrollata di Trap, le somme sono facili da fare.

Parlando del rovescio migliore della medaglia, la storia non ci insegna, almeno non del tutto. Per lo stesso motivo di cui sopra siamo stati nei secoli passati, invece, pionieri della  lirica, per esempio: abbiamo altre radici e siamo portati a ben altro. Come i kenioti sono fenomeni nel fondo. Ad esempio, in tempi meno vetusti, l’Italia si è dimostrata particolarmente sensibile al Progressive. Soave, intellettuale e poetico Progressive. Ma il popolino ce l’ha stroncato, oltre e di conseguenza alle case discografiche. Così senza denari investiti nel panorama, ogni cosa è destinata a finire o a divenire nicchia. Per fortuna quella “nicchia” ha fatto storia e ce la invidiano nel mondo dove certe finezze sanno apprezzarle. O magari sono solo Impressioni Di Settembre. In Luglio. A me personalmente piace il commerciale. Non sono un bastian contrario per partito preso solo per il gusto di fare il finto raffinato. Le canzoni orecchiabili, che non devi sentirle cento volte per cominciare a capirle ed apprezzarle sono cosa buona e giusta. Hanno il loro senso e il loro scopo naturale con relativo fine ultimo di fruizione su larga scala. Ma a tutto c’è un limite.

Non possono essere queste creazioni le punte di diamante di un intero movimento. Ripeto: oggi in Italia festeggiamo il ritorno in grande stile del Rock tricolore. E chi sarebbero costoro? Cotanti nuovi pionieri? Un nome su tutti: Maneskin.  Una band con all’attivo una manciata di cover e tre inediti in croce. Di cui due archiviabilissimi a cuor leggero, mentre l’altro, per carità, non è che faccia gridare al capolavoro strappandoci le vesti. Qui la satira ci viene in soccorso: si prenda in considerazione la possibilità di ascoltare il monologo di Giorgio Montanini sulle cover band. Profetizzante, considerando la diatriba delle cover band del gruppo romano.

Il problema è che vale ancora la medesima regola: a parte qualche perla, continuiamo a non averne la cultura. Tant’è che il Rock ce lo stanno propinando e vendendo attraverso i (un)talent show. A noi che abbiamo avuto la faccia come il culo di chiamare “Rocker” Gianna Nannini e non vergognarci. Certo, se non a noi boccaloni ignoranti, a chi altri sennò? Con questo presupposto non è che si possa pretendere. E non abbiamo preteso, giammai. Ci siamo soltanto prostrati. Di qui a poco il coro anticonformista fac-simile che si conforma a infinito, come l’unione delle rette parallele: “Ah… il mainstream… Quanti danni ha fatto il mainstream?”. La carne sotto e i maccheroni sopra.

Chi avrebbe mai detto, però, che la vera devastazione culturale e neural-musicale l’avrebbe perpetrata, in fine, il canale indipendente? NO! Noooo?!? Eh, sì! L’underground indipendente diventa Indie. Questo è il dato di fatto dell’ultimo decennio e più. Cioè il giardino dell’eden dove ogni stronzo che strimpella un giro armonico di DO, scrive tre minchiate e si atteggia ad artista, viene subitamente idolatrato manco fosse un David Bowie de noantri. Il colmo è che hanno pure seguito.

Questi fanno i numeri ai concerti. E noi mandiamo virale il buon Ivano Monzani – l’addetto alla sicurezza più famoso del web – perché fa delle facce di puro e sacrosanto schifo durante la kermesse del LoveMi a Milano. Mi spiego meglio: quel pover’uomo ha ragione da vendere, è il manifesto della raggiunta sopportazione alla cacca che deve sorbirsi, e diventa virale lui e non le feci in sottofondo. Perché delle sue smorfie ridiamo. Della merda che dovrebbe farci pensare, no. Non facciamo andare a regime la materia grigia. Viva la pluralità, viva la libertà di espressione, ma è normale che ci vogliono cinquanta entità, tra band e cantautori, per fare un EP di sette canzoni vagamente decenti? Rendiamocene conto.

E lo scarto dello squallore l’ho già fatto. Altrimenti i numeri sarebbero impietosi. Ma le vere dita negli occhi sono la stampa asservita al nuovo che avanza. Il “nuovo” – in termini pratici per chiunque legga – significa fare la fame con quei quattro o cinque articoletti scritti in stile copywriting e la possibilità di sentirsi parte di un sistema culturale più ampio presenziando sotto il palco e ringalluzzirsi quando uno sconosciuto ti saluta. L’obiettivo di guardarsi allo specchio e vedersi riconosciuto come un ingranaggio del macchinario. Basterebbe una critica musicale seria. Tuttavia a volte la cosa sfugge dal controllo e chissà come la stanno vivendo ora quelli che hanno avuto modo di spendere due parole sui Maneskin quando erano sconosciuti.

Mi si perdoni la piccola digressione. Lo dico da fiero sostenitore della musica emergente, uno di quelli che odia la stroncatura senza critica costruttiva. Quindi fidatevi sulla parola: il  95% di ciò che emerge ora, sono gli stronzi che tornano a galla dopo una ricchissima defecazione artistica. Se poi vogliamo acclamarli e seguirli, amen. Ma bisogna capire che evacuazioni simili le si possono fare autonomamente a casa, e non ho mai sentito di qualcuno che dopo espletato tira lo sciacquone e applaude.

Non crediamo a tutte le minchiate che si scrivono sui cantanti o musicisti di questa risma. Usiamo le orecchie e mettiamo in moto il cervello. Non tutta la musica è musica usa e getta. Soprattutto non dovrebbe esserlo un genere che ha da sempre fatto da apripista per la ribellione culturale. Con criterio e contenuti, oltre la forma, s’intende. A proposito di ribellione: sapete che fine hanno fatto i Mutonia di X-Factor? Sui social ho beccato chi immaginava i Mutonia come dei Maneskin di provincia che non ci hanno creduto abbastanza. Eppure il guru Manuel Agnelli sembrava così assorbito dai suoi pupilli. Ecco, Manuel Agnelli, giusto per citare qualcuno che di credito ha saputo guadagnarselo col sudore e la fatica prima, e pretenderlo a priori poi, legittimato dal clamore di una trasmissione TV. Così, senza contraddittorio. Perché in tendenza con gli hashtag.

Nel caso dei Mutonia siamo alle soglie del feroce tifo, con relativi slogan e frecciate vacue lanciate da ambo le parti. Critiche spurie che forse non meritano, ma che certamente meritano quando si sottolinea la pochezza del repertorio. Le analogie tra le due band citate non sono poi così poche da diversificarli a monte. Io me lo chiedo dove siano finiti, i Mutonia, e perché, soprattutto. Rebel non è meno concettuale (che Jimi Hendrix mi perdoni) di Zitti e Buoni. La fine del giorno è tutta qui, “Rock and roll is dead”. Se non riusciamo ad uscire dalla mentalità che basti una chitarra distorta per fare Rock, non abbiamo speranza. È il punto di partenza. Forse però il Rock non è morto, dove è esistito, lo abbiamo solo sostituito con un oceano di nulla quantistico che ci ha assuefatti orecchie e senso critico musicale. Il giudizio ne ha risentito, come la cognizione. E su questa colpa dobbiamo sorbirci i dissing e le “rime” di Rhove. Rhove.  Chi? Ecco, appunto.

Mi chiamo Mario Aiello e sono un giornalista pubblicista. "Musicante" e "scribacchino" per passione, perennemente soggiogato dal richamo dell'arte in senso lato. Da diversi anni scrivo articoli di approfondimento nel campo degli spettacoli, della musica e della cultura più in generale. L'altra faccia della medaglia è invece dedita all'analisi politica, oltre che alla cronaca di attualità e costume. Insomma, un pastrocchio.