Social, essere o apparire?

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di Maria Rusolo

Vivere è la cosa più rara al mondo. La maggior parte della gente esiste, ecco tutto.

Cosa accade quando il privato, l’esistenza, l’intimità di una persona diventa di pubblico dominio? Cosa succede in una società in cui non esiste più alcun limite tra ciò che è assolutamente nostro e ciò che finisce in pasto alla comunità dei social? Credo sia un argomento su cui occorra fare una riflessione e non perché non sia lecito parlare di se stessi, dei propri limiti, delle proprie fragilità ed anche delle proprie malattie, quanto mi preoccupa che tutti quelli con cui entriamo in contatto si permettano in qualche modo di dare delle dritte, dei giudizi, delle linee guida alle nostre esistenze.

Certo, qualcuno obietterà che nessuno ci obbliga a farci il selfie in bagno con il brufolo sulla tempia destra o in costume con la panza non proprio perfetta, e che quindi siamo noi a porci nella condizione di essere oggetto poi dei giudizi altrui, ma quello che mi chiedo e chiedo a chi avrà la pazienza di leggermi è perché noi abbiamo bisogno di condividere, e gli altri hanno l’impellente necessità di massacrarci o di imporci in qualche modo un altro stile di vita. Il mondo che ci circonda è cambiato velocemente e noi siamo più soli che mai, nonostante non abbiamo questa percezione.

L’idea di essere connessi con tante persone non fisicamente vicine, inevitabilmente in alcune circostanze ci sembra il modo più corretto per trovare sollievo alle nostre sciagure, condividiamo per esistere, per esprimere opinioni e racconti della nostra esistenza per non uscire dalla bolla nella quale siamo rinchiusi 24 ore su 24. Non importa quanto lavoriamo, quanto usciamo, irrimediabilmente le nostre vite ci appaiono spesso svuotate di significato se non raccontiamo non al vicino di scrivania, ma al nostro contatto, che ci siamo lasciati con il fidanzato, o che siamo ingrassati o dimagrati o che abbiamo comprato un nuovo paio di scarpe. Non sappiamo più parlare a noi stessi, ma siamo anche infastiditi dal coinvolgimento fisico, e ci nascondiamo spesso dietro una apparenza, fatta di oggetti, di cose solo perché l’altro ci spaventa.

Ci spaventa la perdita, l’abbandono, il non essere all’altezza e quando la dimensione della comunità fittizia raggiunge livelli incontrollabili, ci capita di venire colpiti dal pugno in faccia del disappunto, dalla battuta volgare, dalla opinione non richiesta. Questo ci turba, per un attimo, ma in fondo non riusciamo a sottrarci allo scontro, non riusciamo ad uscire da quella camera buia illuminata solo dallo schermo di un cellulare. Nessuno mi fraintenda, in tempi non sospetti ho usato il social, fb prevalentemente, perché sono una boomer, con lo scopo di raccontare quanto di me stessa trovassi scomodo, sicura di trovare tantissime persone con meno coraggio e pronte a parlare, di aborto, di disagio con il proprio corpo, di depressione, di attacchi di panico, di diritti delle donne, di emarginazione, di bullismo, e l’ho fatto con la consapevolezza che valicare il limite del privato rendendolo accessibile, potesse non solo attirare strali, quanto potesse rendermi più vulnerabile agli occhi degli altri.

Se tanto mi da tanto, però, ho usato il mezzo e non mi sono fatta usare, almeno questa è la percezione che mi accompagna, certo ho pagato le conseguenze di mettere in piazza quello che mi apparteneva, ma l’ho fatto con la diligenza dello scienziato che osserva il topolino nella gabbia a cui ogni giorno somministra un po’ di coca cola, per vedere quanto regge e che tipo di reazione ha. Giusto o sbagliato che sia, aprire una discussione, valicando la propria ritrosia dovrebbe servirci non per isolarci dal resto della comunità a cui apparteniamo, ma per crescere con la consapevolezza, che la realtà a volte è la migliore arma per sconfiggere ogni tipo di violenza o di offesa. Non ci si può sottrarre, non ci si può far intimidire, il cretino alberga in ogni dimensione reale o virtuale, affrontarlo ci rende capaci di abbracciare la vita in ogni sua sfaccettatura.

Ecco io manterrei un minimo di riserbo sulla propria vita, eviterei di attaccare qualcuno su una piattaforma perché non ho il coraggio di farlo faccia a faccia, ma parlare, scrivere, ritrarre può avere in se una forza rivoluzionaria. Non esagero, dico solo che in qualche modo i social possono aiutarci a superare il comune senso della vergogna al cospetto di quello che non ci piace in noi stessi, al cospetto della morte, della mutilazione o della non omologazione. Chi se ne fotte di quello che vomitano gli altri, in fondo scelgono un bersaglio e spesso sono poveri infelici costretti a chinare il capo al cospetto del potente di turno o nella vita quotidiana, non hanno il coraggio di scendere in piazza, di partecipare e sono come le formiche impazzite che in primavera cercano di accaparrarsi il cibo necessario per l’inverno, non hanno una logica ed applicano la regola del branco, perché da soli non saprebbero accendersi neanche una sigaretta.

Ed allora siamo quel che siamo comunque ed a prescindere dai giudizi degli altri, ma usciamo dalla bolla e dalla logica dell’apparire per convenienza, non fingiamo lì ed altrove e se quella dimensione ci infonde il coraggio di essere per prendere forma nella nostra comunità non c’è nulla di male. Usiamo tutti gli strumenti che il mondo ci mette a disposizione, ma non lasciamo mai che qualcuno ci trasformi in vittime, che ci stigmatizzi, che ci metta in un angolo, anche se si tratta di postare la foto del trucco sbavato o di quel vestito che non ci dona particolarmente. Siamo li, o altrove perché la libertà è un rischio e merita di essere percorso fino in fondo, anche se alla fine si arriva con il fiatone. La libertà è il vino preferito da sorseggiare durante un baccanale, inebriamoci di vita.

Lo so che giunti al termine di questa nostra vita tutti noi ci ritroviamo a ricordare i bei momenti e dimenticare quelli meno belli, e ci ritroviamo a pensare al futuro cominciamo a preoccuparci e pensare “io che cosa farò, chissà dove sarò, da qui a dieci anni”. Però io vi dico, ecco guardate me, vi prego, non preoccupatevi tanto, perché a nessuno di noi è dato soggiornare tanto su questa terra. La vita ci sfugge via e se per caso sarete depressi, alzate lo sguardo al cielo d’estate con le stelle sparpagliate nella notte vellutata, quando una stella cadente sfreccerà nell’oscurità della notte col suo bagliore esprimete un desiderio e pensate a me. Fate che la vostra vita sia spettacolare.

Nasco in un piccolo paese della provincia di Avellino, con il sogno di girare il mondo e di fare la giornalista, sullo stile della Fallaci. Completamente immersa, sin dalla più tenera età nei libri e nella musica, ma mai musona o distante dagli altri. Sempre con una battaglia da combattere, sempre con l’insolenza nella risposta verso gli adulti o verso chi in qualche modo pensasse che le regole non potessero essere afferrate tra le dita e cambiate. Ho sempre avuto la Provincia nel cuore, ma l’ho sempre vissuta come un limite, una sorta di casa delle bambole troppo stretta, per chi non voleva conformarsi a quello che gli altri avevano già deciso io fossi o facessi. Decido di frequentare Giurisprudenza, con il sogno della Magistratura, invaghita del mito di Mani Pulite, ma la nostra terra è troppo complicata, per non imparare presto ad essere flessibile anche con i sogni e le speranze, per cui divento avvocato con una specializzazione in diritto del lavoro prima e diritto di famiglia poi, ma anomala anche nella professione e mal amalgamata alla casta degli avvocati della mia città. La politica e la cultura , i cuori pulsanti della mia esistenza, perché in un mondo che gira al contrario non posso rinunciare a dire la mia e a piantare semi di bellezza. Scrivo per diletto e per bisogno, con la speranza che prima o poi quei semi possano diventare alberi.