Caminito e l’atteso ritorno del Commissario Ricciardi

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di Maria Rusolo

Tutti quelli che hanno amato Ricciardi, hanno atteso che il viaggio continuasse. Dopo la tragedia che aveva colpito l’insolito Commissario che percorre le strade della vita e della morte ed attraversa una Napoli infelice e dolorosa, rumorosa, ma anche bella al punto da mozzare il fiato, generando comunque un barlume di speranza, i lettori si erano persi nel filo interrotto del rapporto con la vita che emerge negli occhi di Marta, pur attendendo che qualcosa spingesse nuovamente De Giovanni a riprendere tra le mani quella passeggiata, quel dolore e che in qualche modo offrisse al suo personaggio più emblematico la possibilità di ripartire, di riascoltare quello che gli amanti pronunciano nel punto di morire, prima di perdersi completamente tra la folla dei vivi e dei sopravvissuti.

Forse anche l’autore aveva bisogno di una pausa per capire se la propria creatura avesse qualcosa da dire, perché in fondo ad un certo punto anche i personaggi acquisiscono una vita propria e sono loro a dettare le parole ed a scegliere come condurre il gioco.

Aprile beffardo, aprile che illude, con la primavera che promette e che sa ritirarsi nel momento in cui ci si è lasciati andare al caldo del mattino, al profumo degli alberi in fiore, alla carezza del vento che giunge dal mare, quel mese atteso con trepidazione e che consegna uno stato di sospensione e che all’improvviso colpisce nell’atto d’amore due giovani belli, coraggiosi e vittime di un mondo crudele, nel quale gli altri hanno deciso cosa dovessero essere e come dovessero vivere. Caminito, si apre così, ma non è una storia di un delitto, è la storia delle vite degli esseri umani, schiacciati dalla barbarie della guerra alle porte e del regime ottuso e cieco che punisce, confina, elimina ogni forma di differenza e di opposizione.

Ogni libertà, ogni contraddizione è reclusa, è emarginata, e scovata ed annientata, ed è in questo clima che si muovono tutti i personaggi così cari al cuore del lettore, spaesati, colpiti, ma mai umiliati e privi di sogni. Sono le donne però a riempire la scena in questo nuovo appuntamento, Nelide nel suo colloquio incessante con la zia Rosa e nel suo dialetto, come mezzo di ancoramento al terreno friabile, Bianca con i suoi rimpianti e pianti silenziosi, Marta, piccolo gioiello che ascolta e vede molto più della voce dei morti, Lucia, la piccola Nunziatina, Teresa che muore come una bambola, ma che non si lascia trattare da oggetto.

Sono le voci delle donne, è la voce di Livia che nel suo rimpianto nasconde ancora la speranza, sono le donne il vero motore del cambiamento. Ricciardi si muove in uno scenario completamente diverso, ed è questa la forza dell’intero romanzo, la capacità di resistere aldilà delle brutture e della violenza di un sistema fondato sulla paura. Loro non hanno paura, non hanno paura nel denunciare, mentre piangono un figlio barbaramente ucciso, non hanno paura di accogliere anche i doni che il destino ha concesso.

Su quella panchina è Marta a rubare la scena al padre è lei che ne accoglie la preoccupazione, è lei che comprende e muta lo stato d’animo del Commissario, è lei che vive tutto come un dono, è lei che ascolta la voce muta del compagno di giochi e della bambola a cui prepara il tea. In questo c’è una trasformazione profonda del contesto, una evoluzione profonda, un messaggio fortissimo e moderno, che rende eterno il tempo delle ciliegie e che spinge l’opera narrativa di De Giovanni verso una eternità assoluta.

Ogni tempo è il tempo, ogni epoca è l’epoca, ogni presente è il presente. Qui la bellezza travolgente dell’ultimo romanzo, qui la capacità di andare ben oltre ogni previsione di chi legge, di chi ha atteso questi anni per riannodare il filo del discorso. Storie aperte e da costruire, storie in cui Bambinella continua ad essere sfondo di una Città carnale e che nelle sue contraddizioni resta umana e mutabile, flessibile come un albero che al vento riesce a mantenersi in piedi, generando frutti succosi, anche in un terreno isolato, nascosto dalla monnezza e dai casermoni. C’è una speranza ed il suo nome è donna.

Si supieras que aún dentro de mi alma
Conservo aquel cariño que tuve para ti
Quien sabe si supieras
Que nunca te he olvidado
Volviendo a tu pasado
Te acordarás de mí

Nasco in un piccolo paese della provincia di Avellino, con il sogno di girare il mondo e di fare la giornalista, sullo stile della Fallaci. Completamente immersa, sin dalla più tenera età nei libri e nella musica, ma mai musona o distante dagli altri. Sempre con una battaglia da combattere, sempre con l’insolenza nella risposta verso gli adulti o verso chi in qualche modo pensasse che le regole non potessero essere afferrate tra le dita e cambiate. Ho sempre avuto la Provincia nel cuore, ma l’ho sempre vissuta come un limite, una sorta di casa delle bambole troppo stretta, per chi non voleva conformarsi a quello che gli altri avevano già deciso io fossi o facessi. Decido di frequentare Giurisprudenza, con il sogno della Magistratura, invaghita del mito di Mani Pulite, ma la nostra terra è troppo complicata, per non imparare presto ad essere flessibile anche con i sogni e le speranze, per cui divento avvocato con una specializzazione in diritto del lavoro prima e diritto di famiglia poi, ma anomala anche nella professione e mal amalgamata alla casta degli avvocati della mia città. La politica e la cultura , i cuori pulsanti della mia esistenza, perché in un mondo che gira al contrario non posso rinunciare a dire la mia e a piantare semi di bellezza. Scrivo per diletto e per bisogno, con la speranza che prima o poi quei semi possano diventare alberi.