di Giuseppe Pesce
Nella sua urgenza, nell’inseguirsi dei bollettini sanitari, sembra che la pandemia abbia fatto passare in secondo piano una serie di problemi e di questioni irrisolte, mettendole in stand-by. O forse no. Forse questo periodo di emergenza, al contrario, sta solo accelerando una serie di processi e, quando il Covid sarà passato, i problemi torneranno più incancreniti di prima.
Nello scontro tra le regioni, ad esempio, al di là delle questioni istituzionali (l’imperfetta riforma del Titolo V, il regionalismo differenziato, le smanie di protagonismo locale, lo scaricabarile e tutto il resto), resta come strisciante radiazione di fondo un’irrisolta questione politica tra Nord e Sud, pronta probabilmente a riesplodere in toni sempre più drastici e accesi.
Sembra di essere tornati indietro di molti anni, ad esempio, ripensando all’infelice battuta di Beppe Sala – non più tardi dello scorso luglio – sui salari di Milano e Reggio Calabria. Ma soprattutto s’avverte la netta sensazione che la storia sia davvero “maestra di niente”. Anche per colpa nostra, probabilmente, che andiamo sempre più dimenticando, o addirittura ignoriamo, piccole e grandi storie. Come quella di Casoria, che sessant’anni fa sollevò a livello nazionale le discriminazioni salariali di una grande industria nei suoi stabilimenti di Nord e Sud Italia.
La miccia fu innescata da un’inchiesta di Ignazio Delogu, inviato alla vigilia delle elezioni politiche del 1960 dall’«Unità» a Casoria, considerata in quel periodo il più importante centro industriale dell’hinterland napoletano. Nel lungo articolo si denunciava il «lavoro d’inferno alla Rhodiatoce», il grande stabilimento di fibre sintetiche della Montecatini, in attività dal 1953 (grazie anche a importanti finanziamenti statali), in cui gli operai erano vittime di «sottosalario e discriminazione».
La protesta che montò nei giorni seguenti portò a galla le differenze di trattamento tra gli operai di Casoria e quelli dello stabilimento di Pallanza, nel novarese, della stessa Rhodiatoce. Parliamo di circa 400 lire al giorno, ovvero quasi 8mila lire al mese. Ed era tanto, se si pensa che lo stipendio medio di un operaio sfiorava le 45mila lire. Ma nell’inchiesta avviata dalla Cgil – il cui segretario locale era un ex-operaio licenziato per rappresaglia – vennero fuori dati davvero mortificanti.
Innanzitutto, la grande maggioranza dei 1.200 dipendenti di Casoria, pur svolgendo mansioni di operai, erano inquadrati come semplici manovali, percependo già un salario inferiore. Rispetto allo stabilimento di Pallanza, poi, filatori e bobinatori ricevevano 337 lire in meno al giorno, i capimacchina 420, gli allacciafili e gli addetti alla “levata” 253, quelli al controllo e allo smistamento 293. Le donne avevano una retribuzione giornaliera inferiore di 250 lire. Le varie indennità e premi, nei pochi casi in cui venivano corrisposti, erano affidati all’arbitrio della direzione.
Come se non bastasse, alle prime avvisaglie di protesta, fu improvvisamente annunciata, senz’alcuna motivazione, una possibile riduzione dell’orario lavorativo fino a 24 ore settimanali. Un’evidente provocazione, che fu come benzina sul fuoco. Gli operai fermarono la fabbrica. Il grande sciopero, cominciato alle 6 del mattino di martedì primo novembre, continuò per quattro giorni di fila, culminando con la serrata di tutti i negozi e con le cariche della polizia in piazza Cirillo, dove ci fu un eclatante scontro a colpi di “mummarelle”, le tipiche anforette del chiosco della (malcapitata) acquaiola. La polizia fu costretta a indietreggiare, davanti alle migliaia di persone che s’erano unite ai lavoratori. Verso sera, arrivò Giorgio Amendola. La fabbrica aveva accettato tutte le richieste, riconoscendo un primo aumento mensile di 2.500 lire, impegnandosi a uniformare il salario con quella degli altri stabilimenti del Nord.
In un lungo editoriale sulla prima pagina dell’«Unità», Giorgio Napolitano scrisse che gli operai di Casoria avevano infranto «con un forte impeto di ribellione il regime di costrizione e di arbitrio con cui la Montecatini le ha tenuti per anni nell’impotenza». «La Stampa» di Torino, testata “padronale”, raccontò invece la vicenda in una lunga velina di questura – tutto sommato corretta – che elogiava le forze dell’ordine, sottolineando che l’azienda aveva accolto le richieste. Ma non mancarono, ovviamente, le ritorsioni: a distanza di oltre un mese, tra il 17 e 18 dicembre, otto dipendenti furono infatti arrestati nel corso di quella che venne definita subito una «rappresaglia antioperaia» (tra di loro c’era anche un giovane Celeste Manfredi, papà di Antonio, direttore del Museo CAM).
Fa impressione rileggere questa storia e pensare che sessant’anni dopo, a riproporre una palese discriminazione salariale tra Nord e Sud, non sia stato manco imprenditore, ma addirittura un importante rappresentante delle Istituzioni, come il sindaco di Milano. Cosa ci si può aspettare da questo clima, una volta passata l’emergenza? Ma soprattutto: come potrà affrontare la sfida di un dibattito impegnativo – che richiede competenze e credibilità – una politica meridionale che a Napoli e in Campania appare ormai allo sbando, tra la vision datata e provinciale di Vincenzo De Luca e la conclamata inadeguatezza di Luigi De Magistris, con i loro allucinati cabaret a colpi di insulti incrociati e di estenuanti dirette-psicodramma. Certo, non sono solo loro la politica napoletana e campana: ci sarebbero anche uomini di primissimo piano delle Istituzioni: Roberto Fico, Enzo Amendola, Gaetano Manfredi. Ma sono a Roma. E seppure meridionali, da Roma hanno una diversa prospettiva su tutto ciò che accade, avendo più chiara ed evidente la deriva del Mezzogiorno. Che nessuno confesserà mai, perché è un male – e un dolore – antico.