Video choc al Cardarelli, anatomia di una notizia

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di Claudia Procentese

La verità è che se quell’anziano fosse stato vostro padre o vostro marito o vostro nonno, voi quel video non l’avreste girato né condiviso. Tutto qui. Non c’entra il buonsenso dell’uomo comune prima o l’etica professionale del giornalista dopo. 

Se foste stati sul posto, avreste pensato solo ad aiutare il familiare. Se non foste stati sul posto, non avreste mai mancato di rispetto ad un vostro congiunto con un insensibile “invio a tutti”.

«Le immagini non le ho volute vedere – ha detto la figlia di Giuseppe -, ma quando starò meglio ringrazierò l’autore del video perché ha fatto uscire fuori la verità». «Mio nonno non può essere ricordato solo per questo video, perché era molto altro, era un gentiluomo» ha aggiunto la nipote mostrando in tv un altro filmato, questa volta girato in famiglia con il telefonino, mentre balla con il nonno, proprio il giorno prima del ricovero. Forse è davvero tutto qui. Essere costretti a sacrificare l’intimità del dolore sull’altare del diritto alla verità.

Quel cadavere, ripreso da un cellulare, accasciato sul pavimento del bagno dell’ospedale Cardarelli non è il dito stolto né la luna saggia. «Mio nonno era molto altro». La realtà non può essere contenuta nel minuto scarso di un video o nel secondo di uno scatto, pixellato oppure no. Se il dare una notizia o il fare una denuncia significa fermarsi a questo, allora i pochi frame di Mussolini a testa in giù – se si vuol usare un esempio sullo stesso piano dell’impatto viscerale – varrebbero un libro di storia. Ma non è così. Le ricostruzioni sono più complesse di un collage.

L’epifania di un fatto è sorretta da un’intelaiatura di agiti stratificati che non possono risolversi nel terrapiattismo del giudizio critico. L’orizzonte è la linea oltre la quale non vedi, ma non per questo il mondo finisce lì. È il tuo punto di arrivo visivo, ma sarà lo sguardo di inizio per qualcun’altro. Che significa? Vuol dire che il nodo gordiano non sta nel “dimmi se guardi il dito o la luna e ti dirò chi sei”, cioè ti dirò come risolvere il garbuglio esistenziale. Il nodo gordiano è “perché io guardo te che indichi?”. È questa ricostruzione dei fatti basata su un botta e risposta che ha tempi lesti e di pancia: io ti faccio vedere la radiografia polmonare di un malato di Covid per spaventarti ed indurti al pentimento dei tuoi peccati di cattivo cittadino, tu mi mostri il morto caduto in battaglia e i feriti sul campo per spaventarmi e mettermi di fronte alle mie responsabilità di reo impenitente. L’uno legittima l’altro, intanto la paura diventa filo narrativo dentro un movimentato storytelling a colpi di scena plautini.

Non sfugge il paradosso. La tecnologia digitale riporta in vita la morte rimossa culturalmente dal nostro spazio pubblico quotidiano. Anche la parola “morto” è abolita dal lessico ordinario per lasciare spazio ai termini “deceduto”, “stroncato”, “passato a miglior vita”, “ci ha lasciato”. Eppure moriamo e continuiamo ad esistere online.

Senso della perdita, presenza invasiva della morte, elaborazione del lutto, istinto di sopravvivenza, tutto nel giro di un like, un post, un commento, tra un selfie e una diretta Facebook. Vittime, noi, o complici di un’informazione social veloce e di superficie. Che può alla lunga anche assuefarci.

Chi vive a Napoli, in Campania e in tutto il Sud Italia conosce bene il Cardarelli. Sa l’eccellenza di medici ed infermieri, e sa i deficit cronici di un sistema sanitario che può lasciarti su una barella in corsia mentre implori una cura. Chi vive qui sa gli intrallazzi, le mancanze, le promesse disattese. È il paese dove la camorra combatte le sue faide per strada a mezzogiorno e ci scappa pure il proiettile vagante al passante ignaro. Ci siamo assuefatti al sangue e alle “stese” che calcano le scene. È la rappresentazione del nostro vivere. Che non significa connivenza, per carità. Le persone perbene restano tali e silenziose. Ma se senti uno sparo, riconosci cos’è: abbiamo imparato a distinguere il botto di Capodanno da quello di pistola. È l’abitudine della conoscenza.

Telecamere ed obiettivi non hanno risparmiato i morti innocenti, eppure nessuna immagine ha aggiunto peso alla denuncia o educato alla non violenza. Anzi, in alcuni casi la morte spettacolarizzata ha proiettato fuori vicolo il mito dell’invincibilità del martire camorrista e addomesticato il pubblico seriale da divano casalingo. Sacrosanto il diritto di cronaca, sacrosanta la reazione all’ingiustizia, sacrosanto il dovere dell’istituzione al confronto e alla trasparenza, ma documentare una storia è una cosa, il mordi e fuggi del bignami è un’altra. Si rischia altrimenti di ritrovarsi tutti insieme appassionatamente nel salotto televisivo che macina macchiette da noncenecoviddi e burattini che manco Mangiafuoco vorrebbe nei suoi spettacoli.

Certo come dimenticare la foto del miliziano colpito a morte di Robert Capra e quella di Nick Ut della ragazzina vietnamita, foto su cui non c’è mai stata così accesa polemica, preziosi documenti storici. Ma unici. Senza il copyright del social brandizzato.

Alla fine cosa resta all’uomo se non la possibilità di scegliere di non essere né stolto né saggio. Ma solo umano.

Il "Domenicale News" fondato e diretto da Pasquale D'Anna nel 2011, nasce dall'idea e dai bisogni di un gruppo di persone che attraverso il giornale e l'Associazione culturale Kasauri, editrice dello stesso, concretizzano la voglia e l'aspirazione di un desiderio di informazione libera, indipendente e generalista. Resta immutata la volontà di rivolgerci ad un pubblico che dalle idee è incuriosito perchè "Il Domenicale" è soprattutto frutto di una idea.