COME SI DECIDE DI MORIRE

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Mi chiamo Brittany, ho ventinove anni, e ho deciso che li avrò per sempre. Di me ricorderete il sorriso che mi illumina il viso, e non le urla strazianti per il dolore che questo mostro, annidato nel mio cervello, mi avrebbe provocato.


Vado a morire lontano, come fanno gli elefanti quando sentono che sta arrivando il loro momento. Finirò i miei giorni con dignità, appellandomi a un diritto inalienabile. Potendo scegliere, avrei scelto la vita. Avrei voluto giorni, mesi e anni insieme ad un compagno con cui invecchiare, un giardino da curare per farci giocare i bambini, alberi di Natale da addobbare e vacanze da trascorrere guardando l’oceano.

In questa esistenza non ho potuto, e scelgo di tenermeli stretti, questi sogni. Probabilmente, se non avessi scelto così, sarei arrivata al punto di maledire tutto e tutti, per non averli potuti vivere. Il mio destino non sarebbe cambiato, ma avrei avvelenato i ricordi di quelli che mi amano, lasciandoli impotenti a guardarmi morire, straziata nell’anima e nel corpo.
La possibilità di scegliere come finire i propri giorni, è la misura della civiltà di un Paese. Regolamentarla non equivale all’istigazione al suicidio. E’ semplicemente un atto di generosità reciproca. Quando una persona cara se ne va, il dolore è inevitabile. Ciò che si può, e si deve evitare, è che la sofferenza, il senso di colpa e di impotenza per non averne potuto cambiare il destino, vadano ad inficiarne il ricordo.

L’articolo 32 della Costituzione italiana recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”, sancendo così il diritto di scegliere.

Emblematici i casi di Eluana Englaro e Piergiorgio Welby che suscitarono in Italia un acceso dibattito sul diritto all’autodeterminazione, altrimenti definita “eutanasia passiva”.

In un intervista a ADN Kronos, Emilio Coveri, presidente di Exit Italia, Associazione per il diritto a una morte dignitosa, precisa che sono sempre di più gli italiani che scelgono di “morire in esilio” in Svizzera, dove gli abitanti di Zurigo si sono pronunciati in modo contrario al referendum che chiedeva al Parlamento svizzero di rendere punibile qualsiasi forma di istigazione e di aiuto al suicidio e soprattutto a porre fine al “turismo della morte”.

I malati terminali che scelgono l’eutanasia, si recano in una graziosa casa immersa nel verde, nelle campagne di Pfaffikon, solo dopo aver avuto l’ok alla propria richiesta di suicidio assistito e dopo aver stabilito il giorno e dove si confrontano con medici e volontari che, per legge, sono tenuti a non farlo, e a tentare in ogni modo di farli desistere. Ma se il paziente è deciso a farla finita, dopo varie visite che ne attestano le condizioni, si procede con l’eutanasia.

“Il posto è confortevole – assicura il presidente di Exit Italia – si sceglie la musica che deve accompagnare alla fine, si sta con i propri cari, si ha il conforto dei medici e dei volontari”. Materialmente, invece, “si prendono due pasticche anti-vomito – prosegue Coveri – Dopo 10 minuti, se si è ancora convinti, viene somministrato un composto chimico contenente un barbiturico e un sonnifero potentissimo che addormenta profondamente. Impiega 3 minuti a far chiudere gli occhi, nei successivi 5 sopraggiunge l’arresto cardiaco. Non si prova alcun dolore naturalmente”, assicura.
In Italia, non esiste ancora una legge sull’eutanasia, nonostante le numerose proposte presentate nel corso delle varie legislazioni.

La vicenda di Brittany Maynard servirà ad approfondire la conoscenza delle differenze fra eutanasia e suicidio assistito, ma il diritto all’autodeterminazione resta, nonostante la forte opposizione cattolica, un diritto inalienabile di ogni essere umano.

 

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