di Maria Rusolo
Provate a vivere in una piccola realtà di provincia, provate a sentirvi dire quotidianamente che in fondo siete dei privilegiati, per l’assenza di criminalità, per i servizi e per la facilità di vivere in questo luogo simile ad una sorta di paradiso terrestre.
Poi provate a spiegare a chi non ci vive che il paradiso forse non esiste neanche dove dovrebbe e provate a spiegare che in quella realtà non è così facile viverci oggi, come non era facile viverci in passato. Che i servizi sono un miraggio, che il cemento ha travolto e masticato tutto, che la borghesia l’ha fatta da padrona per decenni, avvolgendo del proprio potere ogni centimetro quadrato, in dispregio di ogni regola codificata e protetta da un sistema chiuso come una fortezza. Provate a spiegare che la ricostruzione post sisma ha fatto il resto, che la clientela era ed è la regola del gioco e che aldilà di una apparenza sorniona esistono dinamiche fetide e mostruose che nessuno vuole vedere.
In queste piccole città, come la mia, esistono due mondi lontani tra di loro, i parchi, spesso abusivi ed enormi circondati da mura e cancelli, ed i quartieri popolari, dove l’abbandono e la muffa si insinuano in ogni crepa. La speculazione e la infiltrazione da un lato, l’assistenza e l’obolo elettorale dall’altro. Tutto nelle mani di pochi, anche le regole del vivere quotidiano, a pochi è concesso il tutto, agli altri le briciole.
E se qualcuno dice che in una piccola provincia è tutto più semplice non sa, che è in queste realtà che le piaghe sono più purulente e contagiose, che la Peste dilaga con maggiore velocità e che tutti sanno tutto di tutti e ne fanno uso ed abuso senza alcuna compassione e pietà. Le piccole città hanno qualcosa di nascosto, hanno le finestre chiuse, hanno le tende tirate perché non si scorga quello che accade, hanno il manto della ipocrisia delle famiglie perfette, hanno la volontà di coprire.
Migliaia di vite che si intrecciano e si allontanano ed il dolore diventa un fatto privato da non lasciare trasparire. Fino al momento in cui esplode una violenza sopita ed un fatto di cronaca ci fa rimpallare su tutte le emittenti televisive nazionali, al punto che per qualche giorno, tutti sembrano essere sgomenti, sorpresi ed avere una o più ricette da sottoporre alla attenzione nazionale.
Si sprecano i richiami al senso della comunità, alla necessità di comprendere ed occuparsi del disagio dei giovani, a cui hai tolto scuola, spazi culturali di aggregazione, lavoro, sogni e futuro. Una intera generazione, a cui hai insegnato che non esistono regole, che si devono usare scorciatoie, che conta quello che possiedi e l’apparire, e non l’essere, che vagano senza una meta, perché l’unica meta possibile, ha come percorso una scorciatoia.
Ed allora a che serve parlare e sproloquiare, quando il vuoto dei casermoni e delle incompiute ha già inghiottito l’anima, quando hai tolto sostegno ai fragili, quando non hai creato strutture per la cura del disagio mentale, perché quelle parole non si usano, non si pronunciano a voce alta, perché non si dice che l’abbandono non è solo quello fisico, ma anche quello mentale. Una volta le famiglie più fragili avevano una rete di supporto nella scuola, nelle istituzioni, e si riusciva in qualche modo a colmare le assenze, oggi siamo avviati lungo un precipizio duro da evitare.
Nelle piccole città, come la mia, il tasso di suicidio tra giovani è altissimo, la dispersione scolastica, il tira a campare, una regola, se ne parla per un po’ con toni da sbruffoni in campagna elettorale e poi si apre un altro pub. Mancano ruoli reali di confronto, mancano le guide, mancano gli esempi, che anche una come me ha trovato anche oltre le mura domestiche. Ed allora il sistema ha fallito, è già esploso e non è un singolo episodio di violenza tra le mura domestiche a dover stupire ed angosciare.
Quanti fatti di cronaca vergognosi hanno coinvolto le insospettabili mura bianche di queste piccole realtà, abusi, maltrattamenti, violenza fisica e morale, sfruttamento della prostituzione minorile, pedofilia, ma dopo qualche giorno tutto viene avvolto da una fitta nebbia e ricade nel dimenticatoio. Nessuno vuole ricercare le cause, quelle vere, nessuno vuole intromettersi, tutti vogliono solo gridare al linciaggio ed alla pena severa, nessuno che si pone un quesito più grande, più moralmente corretto: ” quanta colpa abbiamo? quanto abbiamo concorso a questo stato di cose?”
La verità è una ed una soltanto, i processi si celebrano nelle aule di giustizia, ma non risolvono, con una pena più o meno severa, e non esauriscono la gravità dei fatti, ne restituiscono la complessità degli eventi. Siamo tutti colpevoli e tutti dobbiamo affrontare un Tribunale più grande quello delle nostre coscienze sopite. Siamo noi ad avere nelle mani la soluzione, siamo noi a non doverci girare dall’altra parte, una volta smorzato il clamore, e spente le luci.
Lasciamo che le città siano vissute nella piena luce del giorno anche quando piove, raccogliamo il coraggio e cerchiamo di capire come costruire un futuro consapevole e meno mostruoso. Bisogna avere il coraggio di non nasconderci con la testa nella sabbia, di chiamare il disagio con il proprio nome, di non averne paura e soprattutto di chiedere aiuto, ma rimane un problema di fondo, a chi chiedere aiuto se le istituzioni si crogiolano nella ricerca del consenso facile e nella volontà di dare panem et circenses alle nuove generazioni già confuse e ferite? Occorre ristabilire un ordine preciso delle priorità dove l’attenzione non sia più sull’IO ma sul NOI, sembra arduo, ma nessuno ha cambiato il mondo nascondendosi dietro una porta chiusa.
“Talpe sperimentate, smettetela di scavare i vostri cunicoli sotterranei, uscite fuori allo scoperto, lasciatevi invadere dalla voglia di vivere e di… far vivere.“