Il calcio non è l’oppio dei poveri, ma la cocaina dei popoli

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di Massimo Varrone

Da tempo non si riscontrava una risposta indignata così massiva: la superleague ha ridestato spiriti rivoluzionari, vecchi arnesi ideologici, coscienze acquiescenti, analfabeti funzionali, progressisti d’occasione.

Tutti hanno manifestato legittimamente il loro più palese dissenso verso una competizione che rappresenta una mortificazione del sentimento popolare fedele scudiero del fenomeno calcistico, presentandosi come l’esatto opposto di quella meraviglia inclusiva che è la FA cup inglese, manifestazione in cui squadre di quartiere (ma spesso di enorme tradizione) hanno la possibilità di sfidare i blasonati club della premier league per la felicità dei propri supporter e dei bookmakers vista la frequenza con cui si registrano clamorose sorprese.

Proprio il più estroso degli interpreti calcistici viventi, quel monumento al pensiero oppositivo che è Marcelo Bielsa, ricordava a tutti che il senso recondito del calcio è da ricercare nella sempiterna possibilità garantita a Davide di consegnare una sontuosa antologia di saccarate al più titolato Golia.

Esaurita non senza scorie la prima ondata di indignazione, forse vale la pena di alzare lo sguardo dal particolare per provare a capire quante onde ha generato il sasso nello stagno.

Chi scrive parte dal presupposto che l’esperienza calcistica vada interpretata in senso sociologico, nel senso che la manifestazione trascende il perimetro sportivo per interessare, in chiave spesso anticipatoria, l’intera collettività.

Non occorre ricordare che in pieni anni ’70 lo stadio anticipò in maniera netta l’esondazione della violenza per la supremazia fisica mascherata da fabbisogno ideologico che vivemmo nelle strade a partire dal fatidico ’78 e il ruolo di leadership di elite violente che sdoganarono la liturgia del branco.

In tempi più recenti le curve di Stella Rossa e Dinamo Zagabria alimentarono e offrirono le migliori braccia al conflitto etnico nei balcani (mentre il Partizan si muoveva in contiguità con altri ambienti).

Il calcio dunque è destinato a scoperchiare, svelare senza infingimenti, un’autostrada per le coscienze anche più sonnecchianti.

Sembra così anche stavolta.

La presentazione della superleague rappresenta il più fulgido assist per una nuova consapevolezza diffusa su una condizione che fino ad oggi il mondo globale ha accettato con una narcotica pigrizia e un’arrendevolezza oppiacea nonostante le conseguenze funeste: l’inusitata sperequazione nella distribuzione della ricchezza, processi autoconsistenti di concentrazione delle risorse che possono avere un unico epilogo: il disfacimento e il conflitto.

Il modello organizzativo globale registra da anni un appiattimento su organizzazioni turbocapitalistiche che generano distorsioni di ogni specie, non occorre essere complottisti per osservare le convulsioni di cui sono preda Gates, Zuckemberg, Bezos e compagnia per cercare collocazione agli enormi extraprofitti che le derive digitali del capitalismo hanno prodotto, né l’innovazione tecnologica ha saputo calmierare le sperequazioni che già da decenni consentivano a Carlos Slim o Warren Buffet di sedere sopra enormi puff di banconote.

Peggio mi sento se penso alle oligarchie russe, caucasiche o affini sempre sospese tra derive autoritarie e concessioni alle organizzazioni mafiose.

Questo modello purtroppo non solo non trova emendamenti ma neanche una necessaria spinta al cambiamento: purtroppo non posso concordare con il mio amico Alex Giordano che nel suo libro societing 4.0 parla di pessimismo della ragione e ottimismo della volontà, io non registro neanche il secondo.

Fino a oggi.

Oggi l’aggressività della bramosia economica ha fatto una vittima illustre: il pallone.

E subdolamente fa sua la tipica sponda bancaria: la trasformazione è necessaria perché se falliscono i dodici più grandi allora fallisce l’intero sistema, un po’ come quando il povero travet non riesce a pagare la rata del mutuo, e perde la casa, mentre se Alitalia non paga i debiti a pagarli è la collettività.

Oggi la massa scopre che l’accumulazione dei capitali può bucargli il pallone. E reagirà compatta nonostante i media piegati alla logica accumulativa siano già pronti a normalizzare l’evento, a venderlo come preferibile, a magnificarlo come benchmark elettivo a cui tendere.

Il calcio non è l’oppio dei poveri, ma la cocaina dei popoli.

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