Bello di papà: una commedia per riflettere.

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di Margherita De Rosa

La divertente commedia di Vincenzo Salemme, da lui diretta e magistralmente interpretata dal sempre più esilarante Biagio Izzo, al di là dell’apparente leggerezza, pone agli spettatori in particolare e all’umanità in generale una questione non poco delicata, qual è quella legata al desiderio di paternità. In Biagio Izzo, ottimo protagonista della performance, tale sentimento o predisposizione che dir si voglia, è latente, ben celata, occultata dalle necessità lavorative, nello specifico, anche da un certa maniacalità del primo attore per la pulizia, soprattutto del parquet, ma pur sempre insita nella sua natura di uomo e di maschio, che avverte la necessità di un prolungamento di sé, di un’estensione del proprio io verso il futuro.

Così viene posto in essere un complicato espediente per cui, alla fine della rappresentazione, Biagio si troverà coinvolto pienamente nella condizione di padre, che ha dovuto vivere forzatamente, ma che ora sente connaturata e sarà forse proprio quella la molla che lo spingerà ad un reale concepimento con la sua decennale compagna. Certo, la commedia, mai banale come tutti i lavori del grande Vincenzo Salemme, induce ad una riflessione seria circa la genitorialità nel suo complesso e la paternità nel suo specifico: mettere al mondo dei figli non è una scelta da fare con leggerezza, soprattutto se non ci si sente in grado o all’altezza di un ruolo meraviglioso ma pur sempre complesso, reso ancora più delicato da un’epoca in cui le competenze genitoriali sono state stravolte da una pseudo psicologia, che ha voluto, per troppo tempo, assenza totale di regole e genitori schierati con i figli, nella dimensione di una non sempre produttiva amicalità.

Nel suo rifiuto categorico della paternità, Biagio Izzo sottolinea la difficoltà del compito, la responsabilità in esso intrinseca e, per una sana (mica poi tanto…) forma di egoismo, decide per sé e per la sua compagna che il discorso debba essere chiuso. Eppure il desiderio è presente, latente, represso, quasi dimenticato, ma esiste e si presenterà con una forza dirompente che avrà la sua logica e naturale conclusione nella materializzazione di quello che diventa prima un sogno da carezzare e poi un obiettivo, una metà finalmente concreta. Il discorso si amplia, a questo punto, alla dimensione delle responsabilità che competono l’essere umano, qualsiasi iniziativa egli intraprenda, in ogni momento della sua vita: certo, un pizzico di superficialità, intesa come “naturalezza” non guasterebbe, un consentire agli eventi di svolgersi secondo la più sana spontaneità, e si badi, non si fa riferimento all’incoscienza, essendo quella tipica della prima gioventù, resta un atteggiamento da recuperare, almeno per coloro che vivono le prime splendide decadi della loro esistenza. Il discorso diventa più complicato per quanti sono oltre gli “anta”, troppo spesso “accoccolati” nella comodità e negli agi della natìa dimora e, sempre più spesso, restii a rinunciare al proprio essere figli a tempo indeterminato.

E se i più giovani hanno dalla loro parte l’attenuante della scarsità del lavoro e della conseguente impossibilità di costruire un futuro sereno prima per se stessi e poi per programmare la nascita di rosei e paffuti pargoletti, nel primo caso si tratta di puro e insano egoismo: avere una posizione economica sostanzialmente positiva, un’età che ancora lascia spazio alla forza psico-fisica e ostinarsi in una “non paternità” non può avere altra giustificazione se non quella dell’egoismo; certo, si può trattare di paura, di inadeguatezza, di immaturità e allora, in tal caso, la prospettiva muta radicalmente, poiché siffatta tipologia di genitorialità sarebbe lesiva della sanità mentale di una creatura.

Quindi, con gli opportunidistinguo, è fondamentale che si avverta il desiderio e, perché no?, la vocazione ad essere padre, a qualsiasi età essa subentri, purché dettata dalla consapevolezza che la paternità è un ruolo terribilmente serio e, nonostante il mutare dei tempi e degli eventi, tale figura resta insostituibile nell’equilibrio familiare per una svariata gamma di funzioni: dall’identificazione sessuale dei figli, all’individuazione di una figura autorevole a cui fare riferimento nei momenti critici: il padre non è amico, non è complice, non è “alla pari” del figlio: è la sua guida, il suo solido appoggio e tale rimarrà per l’intera esistenza fino a quando i ruoli si invertiranno e i figli si troveranno ribaltati in quella dimensione genitoriale ancor più delicata, che consisterà nell’essere papà di un vecchio bambino, che guarda con fiducia il suo piccolo, ora adulto, aspettandosi da lui quell’amore, quell’affetto e quel rispetto che egli ha saputo dare a lui nel corso di un’intera vita. Se così non fosse, meglio rimanere figli a vita e non fare delle proprie creature vittime innocenti della personale incapacità, destinandole quindi all’infelicità, quale, inevitabile compagna di vita.

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