C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino, e consiste nel togliergli la voglia di votare

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di Maria Rusolo

C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino, e consiste nel togliergli la voglia di votare.

Ogni volta che si vota si assiste ad uno spettacolo poco edificante, che è quello della analisi dei risultati elettorali da parte degli sconfitti, intendiamoci non che le esultanze dei vincitori con una comunità che si reca alle urne in percentuali ormai sempre più basse sia delle migliori, ma ad ogni buon conto non è questo il tema di oggi.

Dicevo che ogni volta che si conclude uno spoglio ci troviamo a dover ascoltare sempre le stesse identiche frasi, nessuno ne esce sconfitto per davvero almeno nella logica ristretta dei leader di partito, nessuno che abbia responsabilità di quanto accade, nessuno che spieghi le percentuali bulgare e tutti pronti subito a dire che la colpa è dell’elettore che non capisce, che si fa indottrinare, che si attacca alle fake news, che non ha a cuore il bene della propria comunità.

Insomma siamo tutti dei fessi, che preferiscono regioni, comuni retti da incompetenti, servizi non erogati secondo criteri di efficienza e di economicità e che scelgono sempre i peggiori, come se poi i candidati fossero non il frutto delle logiche di casta dei partiti, ma fossero individuati dagli elettori. I fessi o gli incompetenti vengono selezionati dalle segreterie e sono spesso, quasi sempre quelli più congeniali alla linea politica del capo di turno ed alla conservazione del potere, quelli preparati nei partiti non fanno carriera, vengono arginati, da subito, ma di questo ho già parlato, per cui l’elettore si trova dinanzi ad una scatola preconfenzionata, al cospetto della quale che deve fare?

La logica della alternanza tra partiti riformisti e conservatori è alla base di ogni democrazia che sia anche semplicemente in apparenza sana, esiste dalla notte dei tempi in tutti i paesi occidentali, senza che nessuno si sia mai stracciato le vesti. In un’epoca storica in cui c’è maggiore povertà umana, sociale, culturale, in cui la sicurezza è vissuta come una preoccupazione costante, la classe più fragile sceglie chi sembra offrire maggiori garanzie in tema di conservazione e di sopravvivenza dei diritti acquisiti.

Negli anni settanta con il boom economico e l’Italia che cresceva, con la mobilità sociale e la scolarizzazione di massa, i diritti civili anche sull’onda del sessantotto avevano un rilievo non ideologico ma pragmatico ed erano sentiti, come parte integrante del benessere individuale e collettivo, basti pensare alla legge sul divorzio, a quella sulla interruzione della gravidanza, e non c’era cultura o strapotere della Chiesa che potesse frenare questo tipo di onda sociale. Oggi i problemi legati ad un calo delle tutele, ad un sistema pensionistico poco solidaristico rispetto alle nuove generazioni, alla assenza di diritti legati alla crescita professionale ed il calo degli occupati con salari dignitosi hanno spostato l’attenzione, a mio giudizio in maniera anche del tutto giustificata verso una visione completamente diversa del voto.

Il voto degli Italiani è un voto meno libero da condizionamenti culturali, lo premetto a scanso di equivoci, ma più di pancia, e non va stigmatizzato, ma compreso, accettato, capito e ad esso si devono dare interpretazioni piene di politiche di senso compiuto. Le ideologie sono morte da tempo, e le battaglie sui diritti civili, che sono inevitabilmente legate a quelle sociali. C’è una interconnessione che non può essere negata se si vuole farli diventare patrimonio comune.

Certo conta la alfabetizzazione e la capacità di comprensione delle questioni, occorrono cittadini preparati, ma ditemi che cosa deve fare un elettore di un paesello della mia terra, quando alle elezioni per la individuazione di un singolo si trova sempre gli stessi o quando è peggio addirittura una sola lista. Davvero si possono biasimare quelli che disertano le urne, o quelli che votano in un certo modo, o non piuttosto quei partiti che da decenni non cambiano i propri percorsi, gli obiettivi e che non curano la crescita umana di chi si avvicina alla politica?

Che si dovrebbe dire ad un giovane che si tessera, si impegna e lavora sul territorio quando poi non sarà scelto per una candidatura? Allora almeno un po’ di onestà intellettuale sarebbe gradita, in questo e in altre cose.

Elettore. Colui che gode del sacro privilegio di votare per l’uomo scelto da un altro uomo.

Nasco in un piccolo paese della provincia di Avellino, con il sogno di girare il mondo e di fare la giornalista, sullo stile della Fallaci. Completamente immersa, sin dalla più tenera età nei libri e nella musica, ma mai musona o distante dagli altri. Sempre con una battaglia da combattere, sempre con l’insolenza nella risposta verso gli adulti o verso chi in qualche modo pensasse che le regole non potessero essere afferrate tra le dita e cambiate. Ho sempre avuto la Provincia nel cuore, ma l’ho sempre vissuta come un limite, una sorta di casa delle bambole troppo stretta, per chi non voleva conformarsi a quello che gli altri avevano già deciso io fossi o facessi. Decido di frequentare Giurisprudenza, con il sogno della Magistratura, invaghita del mito di Mani Pulite, ma la nostra terra è troppo complicata, per non imparare presto ad essere flessibile anche con i sogni e le speranze, per cui divento avvocato con una specializzazione in diritto del lavoro prima e diritto di famiglia poi, ma anomala anche nella professione e mal amalgamata alla casta degli avvocati della mia città. La politica e la cultura , i cuori pulsanti della mia esistenza, perché in un mondo che gira al contrario non posso rinunciare a dire la mia e a piantare semi di bellezza. Scrivo per diletto e per bisogno, con la speranza che prima o poi quei semi possano diventare alberi.