Ecco un esempio di propaganda populista. Quanto può nuocere?

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di Mario Aiello 

 I social network sono diventati dei veri e propri covi di propaganda populista. Quanto questi messaggi possono nuocere alla collettività? Proviamo a scoprirlo con risposte altrettanto populiste. Com’è semplice cavalcare l’onda del populismo. Quello vero, non l’idealizzazione che mediaticamente vorrebbero sdoganare ed introiettare nel comune pensiero della vasta platea.

Questa immagine parla chiaro e tra poco vedremo i logici perché. Racconta la verità ma ne distorce alcuni cardini lavorando sulla narrazione. Sì, la narrazione. Per sottolineare quanto potente possa diventare il coefficiente comunicativo rispetto ai più ampi meccanismi della parola. Oggi, nel universo 2.0, una comunicazione ben costruita è quasi sicuramente percepita dalle masse come fondata, più della stessa verità dei fatti. Le fake news che diventano realtà e condizionano giudizi e comportamenti. Che paradosso, vero?

Per fortuna proprio in questi giorni il caso Morisi, e la Bestia mediatica che ha operato per la Lega, ci sta aiutando a comprendere e far comprendere ai più cosa significhi “saper dire qualcosa”, indipendentemente dal “cosa”, spesso falsa, e come quell’enunciato può aprirsi una strada libera nell’immaginario collettivo nonostante sia, de facto, una falsità o, al meglio, una verità distorta e parzialmente espressa.

Torniamo al caso specifico. Ho trovato questo appello accorato scorrendo tra le condivisioni dei miei contatti. Il gioco è davvero facile, oserei dire puerile: si prende una bella immagine, con poche parole selezionate (vere. Non dimentichiamolo) ed è fatto. Non serve nient’altro. Comprensibile, largamente condivisibile et voilà. La “battaglia” si vince sulle piattaforme social, portata in trionfo dagli analfabeti funzionali che scarsamente comprendono e difficilmente approfondiscono. E fin qui non ci sarebbe nulla di male. Il problema nasce quando quel messaggio viene preso per vero ed aggiunto ai dogmi a cui si crede per fede. La fede è ancora adesso il maggiore movente per i conflitti bellici. Per dire. Quanto sarebbe comodo ed elementare prendere la scia di questi discorsi e ribattere, altrettanto beceramente, con eloqui equipollenti ma opposti?

Mi spiego meglio, non serve essere laureati in materie scientifiche né umanistiche, e, guarda caso, la fantomatica Università della Strada (al Sud. Al Nord la chiamano Università della Vita) pure risulterà inutile. Basta non fermarsi alle risposte tautologiche e mettere in moto la materia grigia. Si dice ciò che “l’imprenditore” non ha, ma si bada bene dal dire cosa “l’imprenditore” ha, potrà avere e furbescamente nascondere. Tutti meccanismi che il lavoratore dipendente, ad esempio, non è in grado di gestire. Non uso le virgolette a caso, “imprenditore” è un individuo del tutto diverso dallo stesso senza orpelli grammaticali. Il famigerato “imprenditore” “non percepisce la tredicesima mensilità”, quella che nel 90% dei casi permette di fare un Natale dignitoso ai lavoratori dipendenti. Vero. Tuttavia non mancano i casi in cui i proprietari di azienda rivestono incarichi che prevedono compensi, non diversi dal salario percepito dalle altre figure aziendali.

Al netto di questo, lo “stipendio” annuo degli “imprenditori” viene attinto dagli utili di azienda. Stiamo ragionando in modo populista? Bene! Nessuno può sapere quanti soldini abbia preso al mese costui e, dato che la tredicesima è un ristoro istituito come sostegno, potrebbe tranquillamente non servire al buon “imprenditore” quanto servirà all’ultimo inserviente che magari è sottopagato e non può disporre delle tutele di un contratto nazionale valido ed equo. Questo punto fa il paio con la questione “stipendio garantito”: Vero, ma con le ultime disposizioni in materia di legge e soprattutto l’abolizione dell’Articolo 18, gli unici ad essere certi dello stipendio sono i dipendenti della Pubblica Amministrazione. Di conseguenza anche i lavoratori dell’azienda dell’ “imprenditore” possono essere licenziati e non godere del suddetto “stipendio garantito”.

Nessuno si addormenta sapendo che l’indomani avrà ancora lo stesso lavoro. Il problema è che continuiamo a non sapere quanto guadagni il nostro eroe, mentre di tutti gli altri il primo a saperne vita, morte e miracoli è l’Agenzia delle Entrate. Le voci “ferie pagate” e “straordinari” sono più uno slogan che altro. Sempre veri. Al giorno d’oggi ufficiosamente nessuna azienda paga le ferie non godute. Chiedete ai vostri amici dipendenti se non sono stati costretti a periodi di ferie forzate, proprio per non vedersele pagate. La differenza è che il nostro “imprenditore” è a capo di quel sistema e può gestirsi come meglio ritiene opportuno: avete mai visto un “imprenditore” chiuso in azienda e bianco come il latte a Settembre? Permettetemi di dubitare fortemente. Ci sono eh, ma chi sono queste anime pie lo vedremo poi. Sugli straordinari, invece, esistono vari escamotage. I turni di lavoro hanno già eroso gran parte del concetto di “straordinario”. Persistono alcuni cavilli, ma Natale è Natale per tutti.

Nonostante ciò esistono filiere che non si fermano comunque. Tanto per i vertici, ma soprattutto per gli operai. E se un’azienda ha necessità di straordinari, vuol dire che va in contro ad utili straordinari. O no? Caro amico populista. Sulla “mutua per malattie” anche il più incattivito dei contestatori può ammorbidire le proprie invettive. Poi ti vengono in mente alcuni “imprenditori” di fama, italiani, con le loro fughe verso costosissime cliniche private e tutto l’indotto che si portano dietro. Lì capisci che la loro idea di mutua non è per niente come quella di un comune mortale che magari deve pagare in lacrime e sudore una visita ambulatoriale o pregare che arrivi il medico di famiglia a casa. Sempre che qualcuno indovini l’acciacco. D’altronde, se avessi avuto le possibilità, anche io mi sarei fatto vedere la caviglia dal Primario a Villa Stuart, come i grandi calciatori. Invece sono stato al C.T.O. di Napoli… eh vabbè.

Ciliegina sulla torta, nel manifesto, in basso, viene scritto a chiare lettere “e più della metà di ciò che guadagna finisce in imposte!”. Testuale. Per chi ha la fortuna (o la sfortuna) di vivere con busta paga, lo esorto a ricontrollare fugacemente per non avvelenarsi il fegato a quanto ammontano le trattenute. No? Davvero? Da non crederci. La percentuale è pressappoco la medesima. Con la differenza che il dipendente non può in nessun modo eludere quella imposta. Non facciamo i finti tonti, sappiamo bene come tanti “imprenditori” tirano a campare. Ad ogni modo, nel mio ragionamento populista, non c’è spazio per “imprenditori” piangenti. Cioè, ci sarebbe, ma faccio fatica a trovarne diversi al fine di metterli a sistema nel computo statistico. In generale chi piange miseria, spesso ha una condizione aziendale florida e quelli che non ce la fanno sul serio sono i veri imprenditori. I veri imprenditori sono quelli che si suicidano perché non riescono a pagare i dipendenti. Quelli che soffrono, quasi sempre nel silenzio di una vergogna auto inflitta.

Purtroppo in Italia esiste la legge del furbo e ogni anno sempre più accoliti si aggregano a questo cattivo esempio civico e sociale. Per investire sono necessarie tenacia, capitali e conoscenza. Non tutte le imprese sono eterne e non di rado si è costretti a chiudere, magari perché l’idea imprenditoriale è stata superata o migliorata oltre le proprie possibilità/competenze. Si cede il passo a che è “migliore”. Proprio come accade all’artigiano che si vede scalzato dalle stampanti 3D, ad esempio. I casi sono tanti, troppi, e i drammi umani ancor di più. Ripeto: non servono grandi studi o chissà quali esperienze per comprendere quanto facciano male alla comunità messaggi di questo tipo. Tendenzialmente servono solo a innescare guerre tra poveri, ingaggiando i simili avversi, perché per quanto “l’imprenditore” – quello misero e infimo, non quello nobile senza virgolette – non abbia, c’è sempre qualcun altro che invece ostenta e nasconde.

Notizia non troppo antica, di qualche settimana: la più grande azienda di comunicazione italiana, trasferirà a breve la propria sede legale in Olanda, pur continuando a trasmettere i propri contenuti al 99% su suolo italiano, usufruito da utenti italiani. Capita l’antifona? Cos’è che non ha quell’ “imprenditore”? C’è bisogno di continuare o magari è meglio smetterla ed essere più concreti? Sarebbe cosa buona e giusta non diffondere slogan di questo tipo, ma ancora meglio sarebbe approfondire, per evitare che il populismo accechi il giudizio e l’operato di chiunque. Per onestà intellettuale devo ammettere che scrivere alcune frasi così infime mi ha lasciato interdetto. Lo scopo tuttavia resta nobile, il fine dovrebbe essere quello di riuscire, con la satira, a sollecitare il ragionamento le lettore. Credi che questa chiosa finale sia inutile e la vedi come un mettere le mani avanti? Fidati, non solo è pertinente, ma addirittura necessaria.

Mi chiamo Mario Aiello e sono un giornalista pubblicista. "Musicante" e "scribacchino" per passione, perennemente soggiogato dal richamo dell'arte in senso lato. Da diversi anni scrivo articoli di approfondimento nel campo degli spettacoli, della musica e della cultura più in generale. L'altra faccia della medaglia è invece dedita all'analisi politica, oltre che alla cronaca di attualità e costume. Insomma, un pastrocchio.