Quattro grandi artisti prematuramente scomparsi: Amy Winehouse

Condividi su

di Mario Aiello

 

 Terzo atto del consueto appuntamento su vita e opere di alcuni grandi artisti prematuramente scomparsi. Per ciò che andremo ad analizzare il clima generale è il seguente: svaniscono le chitarre aggressivamente distorte, si dissolvono le strutture scarne senza arzigogoli. Basta band in power trio, il lascito di Jimi Hendrix è ormai introitato nella cultura di massa. Ecco riapparire il pianoforte, i fiati in ottone, non manca qualche arco qui e là che fa molto “aria”. La compagine di accompagnamento è ben nutrita e sofisticata, similmente a quanto accadeva sui palchi in tavole di legno negli anni cinquanta.

Siamo all’alba del nuovo millennio e la storia della musica appare annoiata da se stessa. Come giunta al punto in cui non si possa più progredire verso nuove sonorità, ma solo reinventare ciò che già fu, magari tirando fuori il coniglio dal cilindro. Nulla di più sbagliato, ma l’istantanea aiuta a farsi un’idea del contesto. La ruota gira e nuovi interpreti si affacciano sullo scacchiere internazionale. È il secolo dei cross over, delle influenze che non modulano ma identificano: il Metal col Rap; Il classico che incontra la Wave; autori che riabbracciano il synth dopo quasi trent’anni e via discorrendo. In mezzo a tanti cantieri aperti, una cantante spicca su tutti portando avanti un genere da sempre poco rivoluzionato, eppur rivoluzionario. Si tratta di Amy Winehouse, col suo R&B contemporaneo, i lontanissimi richiami alla tradizione Jazz (quella commerciale e per tutti i tipi di orecchi) oltre all’impronta Soul.

Amy Winehouse: l’anello di congiunzione tra il Soul e il nuovo millennio.

Nello specifico la sua voce ha saputo coniugare il sapore vintage del Soul con le modernità di una formazione eterogenea con radici di natura addirittura Rap e Hip Hop. Il connotato principale è senza dubbio il “colore bianco” della pelle. Pronunciare il termine “Soul” significa alludere implicitamente ad Aretha Franklin e alla Black Music, restando nel novero delle celebrità femminili. Purtroppo è così, un assunto da cui non si può rifuggire per cause di volontà superiori. Facciamo uno sforzo e abbandoniamo ogni sovrastruttura auto imposta. Non ci impelaghiamo in parallelismi tra le due artiste. Amy Winehouse saprà a modo suo avvicinare con merito la sua musica a quella della “Regina”. Bisogna contestualizzare, chiaro, lo faremo, ma va da sé siano necessari dei paletti all’approccio per evitare fuorvianti fraintendimenti.

Gli esordi e le analogie con le altre Rock star che abbiamo conosciuto.

Andiamo con ordine. Il nostro piccolo percorso è partito dalla coda dei Sixties e proseguito col Grunge di Kurt Cobain. Teniamo sempre bene a mente le gesta e le sfortune dello sciagurato autore e musicista di Aberdeen – stavolta la simmetria è davvero notevole – e voliamo nel Regno Unito. Nei primi anni duemila nessuno si era ancora accorto di Amy Winehouse, ma ben presto chiunque nel mondo saprà riconoscere almeno tre delle sue canzoni. Qualsiasi sia l’età, qualsiasi sia la lingua, qualsiasi sia l’estrazione sociale. I meno impressionabili sanno che è comunque un’impresa riuscita a pochi. Non ne staremmo parlando altrimenti.

Amy Winehouse nasce nei sobborghi di Enfield, nell’estrema periferia nord della capitale anglosassone protetta dai colori biancorossi della croce di San Giorgio. Era il 14 Settembre 1983 e la vocazione alla musica chiamerà non prestissimo, ma in tempo per renderla una professionista a meno di venti anni compiuti.

Sembra una maledizione, ma anche Amy Winehouse, esattamente come Jimi Hendrix e Kurt Cobain, ha pubblicato tre dischi in studio in meno di dieci anni di attività. Nonostante il terzo sia una vera e propria forzatura commerciale messa in piedi dalla casa discografica per lucrare sulla sua scomparsa. Sì, possiamo dirlo senza vergogna, inutile girarci intorno. La talentuosa cantante condivide con i suoi colleghi pure l’età della morte: quei maledetti ventisette anni.

Tre album: Frank, Back To Black, Lioness.

La carriera da solista prende il la attraverso il passaparola nel campo degli studi di registrazione. Una demo primordiale passa così di mano in mano fino a farsi captare dalla rete della Island Records. Un lungo viaggio, calcolando che all’epoca internet era ancora una specie di filosofia. Da lì a poco prenderà vita il primo lavoro discografico, Frank, composto da undici tracce autografe più due cover. L’LP parte subito col botto catapultando, di peso, una giovane Amy nel giro degli emergenti lodevoli. Siamo agli sgoccioli del 2003. Le canzoni che hanno fatto da traino al successo commerciale e di critica sono senza dubbio Stronger Than Me e Take The Box. Nei testi, col senno del poi, ahinoi, si intravedono le debolezze che a breve costituiranno il calvario dell’artista. La velata necessità di non sentirsi sola, forse il timore dell’abbandono. Sentimenti che controbilanciano una forma di aggressione al problema. Amy Winehouse sarà nota proprio per la sua attitudine un po’ disgraziata, un po’ offensiva. In equilibrio fino a quel momento. Ma la follia è come la gravità, basta solo una piccola spinta.

Back To Black è il risultato di tutto ciò. Pubblicato nel 2006, dopo tre anni la cantante è già meno riconoscibile esteticamente. Le composizioni invece la caratterizzano a tal punto da sembrare imprescindibili. La persona con la musica. Le note con l’individuo. Un sistema binario talmente correlato da farlo apparire come un unicum nel mondo della musica. In Back To Black Amy si mette a nudo e lo fa a modo proprio: raccontandosi tristemente nei brani.

La titletrack è un manifesto noir contemporaneo, sia in musica che per tratto visivo. Il video è tanto celebre quanto il ritornello. Nichilista e fascinosa, Amy Winehouse ribalta la concezione più allegra, ma comunque grigia e fumosa nei contenuti, trattata nel singolo di lancio Rehab. Seguono altre hit sconvolgenti: Love Is A Losing Game e Tears Dry On Their Own. Giusto per citarne un paio. Lacrime, visione negativa dei sentimenti propositivi, la riabilitazione dall’abuso di alcol. Il refrain nel suo secondo album è parecchio specifico. Mutuando il profilo musicale, l’autrice affronta problemi molto dolorosi accostandoli non di rado a forme Swing quasi giocose. Un ossimoro auto conclusivo che non si annulla dal prodotto dei suoi opposti.

Conclude le pubblicazioni ufficiali in studio il rilasciato postumo Lioness: Hidden Treasures. Anno 2011. Trattasi si una raccolta, anche di demo spurie, col solo scopo di tradurre in commercializzazione la tragica fine della cantante. Tuttavia nel minestrone di materiale “indefinibile”, spiccano momenti di pura ispirazione e la capostipite Our Day Will Come, anche per lei, risuona come un saluto già vissuto.

Un’eredità talmente densa da non riusce a sopportarne il peso. Una sfortuna per Amy Winehouse, un tesoro inestimabile per gli amanti della musica.

Back To Black è certamente la formula magica che ha permesso alle generazioni di giovani e giovanissimi di approcciare il Soul in modo empatico. Frank ha fatto da apripista e Lioness da triste epilogo. La magia è tutta qui. Al netto dei meriti puramente stilistici. Amy Winehouse apre le porte di un genere che fino a quel momento sembrava essere percepito quale vetusto, vessillo decadente di una trapassato remoto mal sopravvissuto all’inarrivabile bravura dei suoi migliori interpreti, destinato a suonare nell’animo dei vecchi decrepiti o dei pochi appassionati. La cantante prende spunto da un lontano trascorso e ci mette le mani dentro fino ad arrivare al busto mentre, affondandoci le dita, impastava dolori e paure assieme alle note. Alla fine, purtroppo, è affogata nei risvolti tragici di quella passione.

Il percorso della esile Amy è stato inondato di alcol e sostanze stupefacenti. Negli ultimi anni ha spesso disatteso le aspettative dei fan. Molte le testimonianze di apparizioni in condizioni davvero pessime con conseguenti spettacoli rovinati da performance non all’altezza. Sommersa dal peso delle sue debolezze che negli anni hanno preso una forma reale, quella nota degli alcolici prima e della droga poi.

Amy Winehouse si spegne il 23 Luglio 2011 nella sua casa a Camden. Avrebbe compiuto ventotto anni dopo due mesi circa.

Mi chiamo Mario Aiello e sono un giornalista pubblicista. "Musicante" e "scribacchino" per passione, perennemente soggiogato dal richamo dell'arte in senso lato. Da diversi anni scrivo articoli di approfondimento nel campo degli spettacoli, della musica e della cultura più in generale. L'altra faccia della medaglia è invece dedita all'analisi politica, oltre che alla cronaca di attualità e costume. Insomma, un pastrocchio.