Quattro grandi artisti prematuramente scomparsi: Mac Miller

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di Mario Aiello

Siamo alle battute conclusive di questo breve percorso. Una passeggiata volta a rispolverare memorie e pregi di alcuni artisti scomparsi prematuramente che hanno lasciato un segno indelebile con le loro opere

Mac Miller: gli esordi, l’ascesa e le differenze interne al genere Rap.

Oggi parliamo di Mac Miller – nato Malcom James McCormick nel 1992 in Pennsylvania –, sicuramente il profilo più complesso da descrivere rispetto ai tre (ri)visti in precedenza, soprattutto in virtù del fatto che il suo successo non è stato tanto clamoroso quanto quello dei suoi colleghi. Dalla parte del musicista gioca però un fattore di rilevanza non trascurabile: la modulazione del suo percorso artistico. Nasce rapper (quasi) di strada con annessi e connessi. Mancheranno “solo” le manie criminali che non ha mai manifestato né perseguito, anche se in galera ci è stato comunque per guida in stato di ebbrezza e possesso di droghe leggere. Quindi un Rapper “di marciapiede”, nel mezzo tra crudezza di contenuti e attitudine alla festa. Ma siamo al principio e il meglio deve ancora venire.

Comincia giovanissimo, da adolescente era già conosciuto nell’ambiente dedito allo scouting della sua città, Pittsburg. Il passaggio dalle performance amatoriali – con alle spalle una vagonata di Mix Tape – a quelle professionali è immediato. Come tutte le promesse viene fagocitato dallo star system sin da subito. Un po’ perché in quei primi anni dieci del nuovo millennio l’industria musicale pensava a fare denari con la quantità piuttosto che con la qualità, un po’ perché ha saputo riscoprirsi con coerenza, apportando concretezza alle sue idee. La produzione, specialmente per testi e pezzi demo, è una perpetua primavera. Tutto ciò in un lustro o poco più, a meno di venti anni compiuti, come Amy Winehouse.

L’illuminazione sulla via di Damasco: come diventare un Rapper amato non facendo propriamente Rap, descritto attraverso le sue opere.

Gli album in studio sono sei, di cui uno postumo, rilasciato dopo la morte ma ampiamente lavorato dall’artista in fase di registrazione. Cinque LP in sette anni. Una produttività che farebbe invidia alle Rock band degli anni settanta. Dall’alba, fresca e giovanile, verso il tramonto caratterizzato da scelte ponderate su tematiche e decisioni stilistiche. Queste ultime andranno da poco a molto controcorrente rispetto al principio di commercializzazione, chiodo fisso di discografici e produttori esecutivi. Mac Miller cambierà tanto da rappresentare uno dei pochi casi emblematici del genere Rap, complice certo la sua vita fatta di vizi e sregolatezze, finita pure per lui troppo presto, a ventisei anni.

Nonostante le influenze apprese e rimodulate siano molteplici e intuibili dalle prime tracce del suo esordio (Blue Slide Park, 2011), è dal terzo album che la necessità di distaccarsi dal canone Rap che lo inglobava si fa più intensa. Tanto da accostare incursioni Jazz a metriche new-old school, maturando egli stesso in pochi anni, ritagliandosi uno spazio nel novero degli artisti che hanno contribuito a ridisegnare gli stilemi della musica Hip Hop contemporanea.

Impegnatissimo, artisticamente e umanamente, nel raccontare i suoi disturbi psicologici e la dipendenza da sostanze stupefacenti, con l’unico scopo di provare a sensibilizzare chiunque gli desse ascolto sull’argomento. Purtroppo il cattivo esempio non insegna, ma la lezione vale la pena di essere comunque ascoltata. Una confidenza senza filtri estremamente rara. I suoi colleghi ci hanno sempre dimostrato che è più semplice il contrario, cioè lo spiattellamento senza censure dei risvolti più intimi a mo’ di cronaca, un organo di stampa da cui attingere scazzi per generare hype, talvolta dissing, quasi sempre pretesti di scrittura. Poi quasi tutti se ne lamentano, ma questo è il bello della psiche umana. Lui invece ritorna all’origine delle sue esperienze, uscito una volta, ci rientra come a vestire un guanto e da lì prova a delinearne nuove sfumature, sempre più personali, sempre più oscure e vincolate alla propria anima. L’Hip Hop lo ha permesso forse a due o tre grandissimi (tutti finiti giovani, tra l’altro).

Il costo della propria vocazione artistica: Mac Miller, dalle rime al pianoforte, dalla metrica fitta e tagliente alle arie di una musicalità più matura.

Mac Miller rappresenta il Rapper atipico, forse a fronte delle sue origini stilistiche, anche osteggiato da un certo punto in avanti. Ma la testa dura e il chiaro percorso artistico che aveva ben chiaro, non hanno lasciato spazio a compromessi. Difatti “rinuncia” ad un congruo seguito commerciale in favore di un’ispirazione senza catene, seguito da tanti che apprezzano, ma un po’ meno di quanti lo avevano seguito nei suoi primi lavori. Tanti hanno storto il naso, gli integralisti di genere lo avrebbero crocifisso in sala mensa se avessero potuto, una volta “disattese” le loro speranze.

Anche la voce cambia, come normale pensando ad un ragazzo appena maggiorenne rapportato alla stessa persona dopo sette anni. Sono piccolezze che si fanno concrete accostando Frick Park Market o la stessa title track Blu Slide Park della sua opera prima a qualsiasi brano di Swimming o Circles. Le influenze del Rap tagliente “bianco” resteranno indelebili, quelle a matrice Beatie Boys per intenderci. I Rapper bianchi di questi tempi hanno parecchie gatte da pelare a priori. Eminem nel duemila ha fatto da Mosè, separando nettamente le acque da un “prima” e un “dopo”. La faccenda si fa più interessante andando nel dettaglio delle canzoni, Miller dimostra tutte le caratteristiche di chi rappa e non è nero. Se non riesci a trovare il bandolo della matassa e risolverlo a tuo vantaggio, la figuraccia e dietro l’angolo. Ed ecco qui il genio: il colore arriva dalle altre influenze. R&B, Funk, Urban, Jazz e nuove identità del Soul. In quegli anni prendeva piede l’alternative Rap e lui sarà tra le maggiori espressioni del filone. Con un graduale allontanamento dal concetto di mainstream, abbracciando tematiche impegnate con parziale rigetto della subcultura Hip Hop da supermercato che ormai aveva afflitto ogni sfaccettatura espressiva del genere.

Opere e omissioni. La discografia di Mac Miller in breve.

2011. Esordio. Giovanile, festaiolo, o meglio, da “pomeriggio” della festa. Non ci sono grossi sussulti stilistici se non qualche sprazzo qui e la. Tuttavia il contesto easy lo fa schizzare in alto nonostante sia una distribuzione indipendente. Predestinato.

Nel 2013 è il momento di Watching Movies with the Sound Off. Il secondo album è più introspettivo e grigio. Rispecchia la necessità di ogni artista Rap di rinnegare in parte se stesso per portare avanti un’idea diversa di ciò che gli altri pensano egli sia. Col senno del poi non di certo il suo lavoro migliore, ma la sua migliore modulazione per finalità non strettamente commerciali. C’è chi lo fa per soldi e chi invece per capire cosa significa scrivere con la sinistra, essendo destri. Disco lungo più di un’ora con diciannove tracce, contando le bonus track. Non sempre eterogeneo, ma almeno se la canta e se la suona, dedicando alla produzione tanto quanto per la scrittura.

GO:OD AM è del 2015 e riprende la formula del precedente, inserendo sonorità e strumenti non proprio standard per le produzioni del genere. Qualcosa già sta cambiando, c’è molta musicalità, tanta idea e meno metrica infinita. Le strofe cambiano, si suona. Si percepisce il senso di musica e non solo beat, tempo, duecentomila parole a incastro. Il tutto mantenendo una ragione idealistica “viva e vibrante” (Cit.), fattuale, di quelle che ti fanno esclamare: “ok, è Hip Hop, è lui, ma capperi, che stile che sta tirando fuori”.

Quarto LP, The Divine Feminine, anno 2016. Il tempo delle mele con variante affettiva secondo i dettami dell’amore generico, ma pure specifico. Risultanze e disavanzi di interazioni (pro)positive. Ci passano tutti. Al netto di una scrematura quasi Jacksoniana (inteso Micheal), e, essendo incentrato sull’amore, non mancano i fiati in ottone. Ma ha anche dei difetti. Postveggente.

La svolta, quella che magari non ti fa guadagnare tanti soldi ma una montagna di stima trasversale da tutto il mondo, pure dai sordi e dal Papa, giunge con Swimming, del 2018. Pubblicato poco più un mese prima della dipartita. Una parte maligna dei commentatori atavici ha attribuito il successo dell’opera alla dipartita dell’artista. La verità? L’ho pensato anche io. Poi succede che vuoi appurare facendo il pelo nota per nota, così da poter gridare al mondo, senza vergogna e possibilità di smentita: “sì, il disco fa cagare! È arrivato dove arrivato perché è morto di overdose”. Eh niente, succede pure che ascolti ascolti e capisci che forse non ha rivoluzionato il modo di intendere la musica moderna come Jimi Hendrix, non avrà con tre accordi scombussolato orecchie e cuori di milioni persone al pari del compianto Kurt Cobain, o riavvicinato tanti nomadi del Soul ad una personalità inaspettata.

Però da crisalide Rap si è trasformato in farfalla Alternative. Alta scuola Alternative aggiungerei. Ma chi ci è riuscito, seriamente, al mondo? Pochi! Rinunciando oltretutto a vagonate di danari, collane d’oro come se piovesse, milioni di fan coi paraocchi e una popolarità spropositata. In virtù di cosa? Di un gusto musicale ante litteram e la semplicità implicita di riuscire a tradurre testi e suoni di natura hip hop sotto forme “diverse”? Non è nemmeno un caso che l’album sia di tredici tracce. La morte lo ha consacrato, prima nella cerchia di chi lo conosceva e seguiva, poi davanti al mondo che ascolta non solo ciò che la radio o i grandi sistemi decidono di farci ascoltare.

Circles, postumo del 2020, ribadisce la sua impronta sul panorama e tratteggia un cerchio che, ahinoi, si chiude a causa della prematura scomparsa del soggetto principale. Circles è l’altra metà della mela di Swimming. Un sapore concettuale che ci è precluso discernere secondo la completa volontà di Mac Miller, in quanto non ha potuto prendere parte alla produzione artistica del progetto, partecipando unicamente alle riprese per il materiale di registrazione.

E sapete che vi dico? Ce lo dovremo far bastare. Applausi a scena aperta.

 

Mi chiamo Mario Aiello e sono un giornalista pubblicista. "Musicante" e "scribacchino" per passione, perennemente soggiogato dal richamo dell'arte in senso lato. Da diversi anni scrivo articoli di approfondimento nel campo degli spettacoli, della musica e della cultura più in generale. L'altra faccia della medaglia è invece dedita all'analisi politica, oltre che alla cronaca di attualità e costume. Insomma, un pastrocchio.