C’erano una volta le piccole ed educate città di provincia

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di Maria Rusolo

Descrivere il declino delle realtà di Provincia ha un grosso effetto su chi ci è nata, ci ha vissuto, ci ha costruito il proprio presente ed il proprio futuro, ed in qualche modo ne ha anche combattuto gli angusti limiti culturali e di chiusura sociale.

La Provincia Italiana, le piccole città del Sud avevano più difetti che pregi, erano l’emblema di un potere consolidato della classe borghese che decideva tutto senza minimamente preoccuparsi di chi viveva in altri ambienti sociali. Ogni cosa nelle mani di pochi, sempre gli stessi, tutti nell’alveo delle stesse famiglie detenevano una gestione capillare di uffici, di amministrazioni pubbliche, di quel potere economico che consentiva loro di guardare gli altri dall’alto in basso.

Erano però tempi diversi, erano tempi nei quali qualunque fosse la tua estrazione sociale ti era data la possibilità di emergere dal contesto sociale in cui eri nato, di studiare, di conseguire una laurea, di andare in un’altra città per crescere culturalmente, erano tempi in cui per quanto stretta sembrasse la propria stanza, ogni mondo, ogni realtà, ogni confine ti sembrava valicabile, ogni limite superabile. Tempi di scontri sociali, e di lotte per l’affermazione di diritti, il divorzio, l’aborto, lo statuto dei lavoratori, si occupavano le fabbriche e le facoltà, con timore e tremore, ma con la forza delle convinzione e dei cambiamenti.

E la provincia, piano piano, cambiava, mutava la propria pelle, intendiamoci i borghesi continuavano ad avere esistenze dorate, ma il potere non era più assoluto, si cominciavano a sgretolare i privilegi, e la gente non abbassava più la testa al cospetto di una presunta superiorità di nascita. Il mondo per come lo si era conosciuto non esisteva più, il progresso economico aveva determinato anche un progresso umano, valoriale, spinto nella direzione di una equità mai immaginata, nessuno mi fraintenda sotto la cenere continuavano a covare le ingiustizie, le differenze incolmabili, ma nulla che non potesse essere decostruito, nulla che non potesse essere stigmatizzato.

La politica diventava mezzo e strumento per la emancipazione delle masse, non appannaggio di pochi notabili paesani, anche l’operaio si impegnava, aspirava ad essere eletto, a rappresentare gli ultimi nelle stanze istituzionali. C’erano i sogni, le speranze, la possibilità di incidere sui cambiamenti, c’era la volontà di lasciare un mondo diverso, alle nuove generazioni. Guardando indietro mi accorgo di quanto meraviglioso fosse quel mondo, in cui ogni giorno avevamo un obiettivo più lontano, rispetto alla mera coltivazione del giardino di casa nostra.

Sono nata in una città della piccola provincia dell’Italia Meridionale, ma non ho mai pensato che dovessi scappare di qui per essere felice. A scuola, in famiglia, mi veniva insegnato che potevo alzarmi in piedi e manifestare il mio dissenso, ma dovevo farlo quando avessi avuto la preparazione sufficiente per smontare ogni reazione contraria. Insomma dovevo essere più preparata di chi imponeva certi contesti, ma che tutto mi era possibile, nulla mi era precluso. Ben presto mi sono dovuta scontrare con il Sistema, nei concorsi, all’università, nella politica, ogni giorno nella mia professione. Niente ruoli apicali per chi contesta lo status quo, niente incarichi se critichi la pubblica amministrazione che fa acqua da tutte le parti, guai a chiedere conto di come vengano gestiti soldi pubblici e fondi. Prima ti emarginano, poi ti combattono, e poi ti mettono nelle condizioni di sbattere la porta.

Ed allora ti chiedi se siano validi gli insegnamenti ricevuti, se non avresti fatto meglio a seguire la corrente, in un abito strizzato, sfoggiando una risata da oca all’occorrenza, forse ti sarebbe costato in termini di coscienza, ma quante seccature ti saresti risparmiato. A volte è sfiancante, faticoso, ma queste terre brulle, difficili, nelle quali le albe ed i tramonti sembrano sempre uguali, in cui gli inverni sono freddi e lunghi, hanno temprato in qualche modo la nostra anima, ci hanno reso resistenti alle botte ed ai calci nel sedere, ci hanno reso capaci di cercare un mutamento, un moto, una reazione. Come vorrei che alle nuove generazioni fosse raccontata la storia dei nostri padri, dei nostri nonni, fosse mostrata la testimonianza di una industrializzazione forzosa e forzata che ci ha emancipato, e schiacciato, fosse raccontato di come a queste latitudini il lavoro ha dovuto fare i conti con la salute, di come la dignità ha sempre dovuto fare i conti con la paura e la necessità di sopravvivere.

Senza esempi non c’è futuro possibile, e senza la giusta valutazione degli eventi c’è solo il terrore di cambiare quello che ci circonda. Ed allora non è questione di istruire, di educare, introducendo nuovi capitoli di storia o di educazione civica, abbiamo fallito perseguendo quella direzione, è necessario raccontare che non tutto è scritto, che non esiste un futuro ineluttabile e già previsto, ma che la costruzione di quello che ci circonda è una sola ed esclusiva nostra responsabilità in ogni circostanza. Non lasciare speranze, ci costringe ad affogarci in una realtà fatta di brutture e di grigio cemento, andando in mare aperto senza un cordone di salvezza.

Dobbiamo qualcosa di diverso a noi stessi ed ai ragazzi. La libertà ed i diritti non sono un fatto acquisito, sono fragili e senza doveri, obblighi ed impegno, non hanno più senso ed alimentano quei privilegi di cui ci dobbiamo sbarazzare e verso i quali dobbiamo combattere. Senza partecipazione, senza metterci in gioco non c’è orizzonte.

“Prendi un sorriso, regalalo a chi non l’ha mai avuto.
Prendi un raggio di sole, fallo volare là dove regna la notte.
Scopri una sorgente, fa’ bagnare chi vive nel fango.
Prendi una lacrima, passala sul volto di chi non ha mai pianto.
Prendi il coraggio mettilo nell’animo di chi non sa lottare.
Scopri la vita, raccontala a chi non sa capirla.
Prendi la speranza e vivi nella sua luce.
Prendi la bontà e donala a chi non sa donare.
Scopri l’amore e fallo conoscere al mondo.”

Nasco in un piccolo paese della provincia di Avellino, con il sogno di girare il mondo e di fare la giornalista, sullo stile della Fallaci. Completamente immersa, sin dalla più tenera età nei libri e nella musica, ma mai musona o distante dagli altri. Sempre con una battaglia da combattere, sempre con l’insolenza nella risposta verso gli adulti o verso chi in qualche modo pensasse che le regole non potessero essere afferrate tra le dita e cambiate. Ho sempre avuto la Provincia nel cuore, ma l’ho sempre vissuta come un limite, una sorta di casa delle bambole troppo stretta, per chi non voleva conformarsi a quello che gli altri avevano già deciso io fossi o facessi. Decido di frequentare Giurisprudenza, con il sogno della Magistratura, invaghita del mito di Mani Pulite, ma la nostra terra è troppo complicata, per non imparare presto ad essere flessibile anche con i sogni e le speranze, per cui divento avvocato con una specializzazione in diritto del lavoro prima e diritto di famiglia poi, ma anomala anche nella professione e mal amalgamata alla casta degli avvocati della mia città. La politica e la cultura , i cuori pulsanti della mia esistenza, perché in un mondo che gira al contrario non posso rinunciare a dire la mia e a piantare semi di bellezza. Scrivo per diletto e per bisogno, con la speranza che prima o poi quei semi possano diventare alberi.