Grazie per l’amore per la città. Grazie per la follia, per il sorriso. Grazie.

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C’era un poeta, si chiamava Orfeo, uno che era anche un po’ sciamano e che col suo canto era capace di trasportare in un altrove gli elementi naturali, le montagne o gli alberi battevano il tempo, e gli animali, il lupo si avvicinava docile all’agnello e i pesciolini venivano fuori da fiumi e mari per lasciarsi blandire dalla musica. Psicagogia, si chiama. Questo se ne scese pure agli inferi e pure gli dei inflessibili dell’ade riuscì a piegare e placare, vincendo la morte, perchè la morale di questo apologo è che Bellezza e Poesia possono vincere la morte, ma non la necrosi putrescente di un calcio inquinato.
In fondo, provarci per Orfeo significava mostrare al mondo cosa può osare un uomo, che cosa può provare a spazzar via, dolore, male, morte, mistero, “tutto ciò che può anche togliergli la vita ma non vincerlo, perché è questo il segno divino negli uomini, sfidare l’impossibile e ricominciare, ricominciare sempre”.
Essere come Orfeo ha significato essere contro. Lo è stato anche, vado a caso, per Insigne, per Callejon, per Allan, per Hysaj, per Ghoulam, per Hamsik, per Mertens, per Zielinski. Ha significato credere nella possibilità di un andamento diverso, ha significato illudersi di forzare il corso progettato e realizzato delle cose, ha significato educare alla bellezza e alla poesia confidando nella capacità di piegare la innocenza della natura e la fogna della mafia alle superiori ragioni del Bene.
Siamo, in questo senso, loro e noi, tutti degli Orfeo che non ce l’hanno fatta, cesellatori di Sublime rivelatisi impari all’impresa, perché abbiamo creduto l’impresa una gioiosa scalata in nome di superiori ragioni etiche ed estetiche e invece era una battaglia contro il Male per la quale le armi a disposizione erano poche e spuntate. Tale deprimente verità quante volte mi è stata sbattuta in viso di volta in volta da milanisti, interisti, romanisti, puntualmente defraudati di quanto spettava: la corsa punto a punto con loro è persa sempre e in partenza. Se cedono prima, bene; ma nel rush finale non puoi reggere né la subdola somministrazione dell’aiutino né la pacchiana rapina coram populo.
È stato così.
Prima di disintossicarmi, di staccare la spina, di lasciare sola l’Italia del celolunghismo e del voi non avete vinto niente l a festeggiare con un bel giro attorno al tavolo o al divano, è il tempo del ringraziamento .

Grazie, Ragazzi, e grazie, Mister.
Grazie per la gioia, la condivisione, l’onestà, la volontà.
Grazie per il gioco, per avermi inebriato di stupore, di avermi colorato le notti impassionandole di sangue e di azzurro.

Grazie per il miraggio covato, e anche per il risveglio sussultorio, io ho delirato per voi, io ho sognato con voi, come avete sognato voi, io mi sono ridestato con voi nel cuore.
Grazie per avermi reso unica quella trasferta a Roma, l’ultima col mio papà che ancora c’era.
Grazie per avere cantato con me dopo ogni vittoria, per avere ricompattato una tifoseria d’occasione e di rabbia, per avere unito disfattisti, ottimisti, arrabbiati, disillusi, papponisti, e grazie pure per avere isolato nella loro torre d’avorio colma di pippe spocchiose i radical-sciocchi, icona di ottusità e stoltezza professorale, e spesso professionale, senza pari.
Grazie per gli sbuffi azzurrati di malìa.
Grazie, per avere interpretato il gioco più bello del mondo scorgendo interstizi di spazio dove l’occhio umano vede muro e grigiore, dispensando a piene mani filantropia calcistica, passioni di sciabola e esoterismi da fioretto, giocate sideralmente difficili, genialmente funzionali, paurosamente efficaci, ambrosia stillante, baluginio di sapienza vicendevolmente distillato tra compagni, Luce che da lume accende altri lumi.

Grazie per il pensiero veloce, garante di ripartenze, di gioco macinato, tritato, liofilizzato, per il rapporto anticipatario col pallone, sorta di esegesi moderna del carpe diem, per il saper cogliere l’attimo semplicemente fiutandone l’arrivo, per la allure avanguardista, per aver provato a portare l’intelligenza al potere, una inteligenza da Nobel.
Grazie per la disponibilità al sacrificio, per il carattere forgiato a fuoco, per avere corso, inventato, concluso, devastato, annientato, represso, ingannato, sguarrato.
Grazie anche per le lacrime di rabbia e di stelle che ho visto versare ieri perché, come quelle di Ulisse, sono le lacrime di chi è provato, coraggioso, sognatore,di chi è impotente contro il potere che ti fa fuori e contro il palazzo che ti respinge, di chi è ricacciato via da un sogno accarezzato, vezzeggiato, covato e adesso finito per davvero, di chi è limpido, di chi è lottatore vero ma ad armi pari, di chi usa testa e corpo davanti al mondo, senza infingimenti, senza pastette, senza trucchi.

Grazie per l’amore per la città.
Grazie per la follia, per il sorriso.
Grazie.

Enrico Ariemma Docente di Lingua e Letteratura latina presso l’Università di Salerno. Uomo di inverni miti e di estati di passione, malato di Napoli e di filologia, in quale ordine non saprebbe dire. Chirurgo di testi per vocazione antica e per impegno accademico, prova con francescana ostinazione a educare alla Bellezza, dinanzi ai cui inattesi impercettibili cristalli si stupisce e si commuove. Per questo detesta con pervicace ostinazione il brutto, il crasso, il banale, il volgare. Stanziale da quarant’anni al San Paolo, legge, scrive, insegna, cavalca una moto, inforca gli sci, va per mare, vagabonda per mostre, viaggia per le leghe del pensiero e per le strade del mondo. Ama.