Il mio Pino – ( un anno dopo ): senza ‘e te nun so niente

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di Enrico Ariemma

Povero Raymond Carver, esposto, vilipeso, stuprato, addomesticato ogni qualvolta si tratti di capire di cosa si stia parlando quando si parla di qualcosa. In realtà, sono proprio questi i termini in cui ha recentemente ragionato Federico Vacalebre, splendido prefatore dell’assai fortunato (e, purtroppo, decisamente diseguale) volume di racconti ispirati alla musica di Pino Daniele, per il cui primo anniversario della morte è facile prevedere una mobilitazione, soprattutto soclai-oriented, senza precedenti. Al centro Vacalebre ha messo la città. La città che riuscì allora, compostamente ma fermamente, a compattarsi, spontaneamente nella forma del flashmob e istituzionalmente (e dal basso, a un tempo) nel “pretendere” per sé un funerale identitario. Un momento, dunque, di coesione post(subitam)mortem della comunità, che ha tenuto a bada espressionistici e barocchi furori, stemperandoli nella tenue malinconia del dolore condiviso.

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Provavo a caldo, un anno fa [http://www.ildomenicalenews.it/il-mio-pino-tutta-nata-storia/], a incanalare emozioni troppo pervasive, a disciplinare materia troppo bollente, oggettivandole come solo la scrittura consente. E scrissi, di getto, di pancia, per sentirmi meno solo. Fu il tempo dell’analisi a caldo, del distanziamento dallo sgomento, dell’elaborazione della perdita. Fu il tempo di un riascolto sincronico e poco lucido di millanta pezzi, senza discernimento alcuno tra il pre e il post pop, fra “Mama e” e “Anima”. Fu il tempo di un bilancio personale, come quello di colui che ha visto la vita scansionarsi e compartimentarsi illuminata, rischiarata, abbacinata da quella musica e quelle parole. Un bilancio. Pensavo all’uomo che muore e all’artista che rimane, all’ “armonia / che vince di mille secoli il silenzio”, alla presenza pervasiva che il trapasso accentua, non oblitera. Una convinzione che, sia pure ancora a caldo, il memorabile, mesto afflusso in forma autoconvocata in Piazza Plebiscito si incaricava di confermare, mescolando tre generazioni nel luogo simbolo di Napoli e di Pino Daniele a Napoli – San Gennaro 1981. Pensavo che, grosso modo, una visione di questo tenore, tutto sommato neutra e neppure troppo originale, traesse linfa sia dagli odori dei vicoli, sia dagli umori del salotti buoni. Mi illudevo fosse informata a rozzo buonsenso.

 

E invece.

 

Invece ecco la levata di scudi di autoproclamati indignados da tastiera e di qualche operatore dell’informazione di estrazione vagamente radical e in cerca di effimera visibilità: quella arrivò subito. Si voleva insegnare a un popolo di lazzari orgogliosamente impenitenti e, per fortuna, felici, che cosa si fa e che cosa non si fa, e passi; che cosa Pino Daniele avrebbe pensato, che cosa lo avrebbe gratificato, che cosa c’era dietro la scelta del buen retiro in Toscana, e cosa c’era, trent’anni prima dietro il più lieve rifugiarsi a Formia (ho casa lì da 45 anni e ci facevo le postegge a casa sua, e posso assicurare all’universo mondo che non c’era niente dietro la fuga a Formia). E ancora, ci si chiedeva, dando risposte certissime, se avrebbe gradito “Napule è” come inno del Napoli calcio (ci sarebbe materia per una riflessione a parte, su questo punto); e ancora, stranamente, si forniva cassa di risonanza a manetta alla voce dei figli, laddove i fratelli venivano derubricati a volgari opportunisti. E lui era, e lui non era, e lui pensava, e lui adesso penserebbe. Ma lo conoscevano tutti così bene? Tra analista e onanista, si sa, il discrimine è impercettibile. I cecchini d’accatto, i moralisti del vicolo, spararono a zero, con garbo ipocrita degno di cause meno meschine, sull’isteria presunta (che divenne invece sommesso contegno) dei lazzaroni in servizio permanente effettivo; ma poi dispensarono, distillandole con sapienza da gossippari esperti, chicche preziose (“ma capite? non gli piaceva prendere il sole!” veeeeeery interesting!). A tanto portava l’ immensa inconfessata vergogna di essere napoletani, l’immensa inconfessata vergogna di non saperlo veramente essere, l’immensa inconfessata vergogna di non esserlo: Pino Daniele, con Napoli, ci aveva litigato a morte, per questi qui. Come se avere la allure visionaria per identificarne guasti, contraddizioni, deprimenti squallori e bellezze abbacinanti, equivalesse per lui ipso facto a chiamarsi sdegnosamente fuori (e invece si ascolti e si meridi: “ma è la mia città / tra l’inferno e il cielo”: aveva capito tutto, e questi pseudoesegeti d’accatto una cippa).

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Fu un vulnus autentico, questa ribalderia. E la città, che si appresta a celebrarne il primo anniversario della scomparsa, ha invece custodito con straordinario senso di proiezione la memoria di chi ne è stato anima e interprete, di chi ne ha cambiato, scientemente, progettualmente, umori e cultura, arrivando dritto a ogni singolo membro della comunità, non meno di e diversamente da Totò, Eduardo, Massimo Troisi, Raffaele Viviani. Tacendo della permanenza per dieci giorni delle ceneri nella Sala dei Baroni, oltre al volume menzionato più sopra, una mostra fotografica nel salotto buono della città, la città, nella sua componente istituzionale, ha intitolato, con toccante solennità, una strada all’artista nel suo luogo di nascita e di prima formazione (e anche lì, che noia che barba; “e però il vicolo è sporco, e non gli sarebbe piaciuto, e potevano pittare i muri, e quanto chiccosissimi benpensanti ingemmano Napoli). E poi, via Toledo sempre brulicante della sua musica, diffusa dagli altoparlanti dei negozi, e poi un continuo, irrelato rimpiattino sui social di brandelli di versi, di esecuzioni live ripescate chissà dove, di alternate takes tirate guori da qualche ricettatore di rarità: tutte cose che fanno identificazione individuale e collettica, che cooperano a costruire la memoria, che riaffermano una presenza persistente. Con buona pace di tanti Soloni improvvisati o del mestiere.

 

Profondamente inautentica, invece, la centripeta contrizione di chi, per un motivo o l’altro, lo aveva osteggiato, per il rutilante espressionismo ribellista della primissima maniera, per essere comunque schierato prima e unengaged poi, perché troppo raffinato cercatore di sonorità contaminate o troppo infognato nel dialettismo autoghettizzante, eccetera eccetera eccetera. Questione assai discussa, e mai compiutamnente escussa: quanto a me, sono tra quelli che “ha chiuso” con Pino Daniele dopo “Che dio ti benedica” (1993; e volevo farlo già prima, ché dopo Mascalcone latino …), salvo riscoprire, nel tempo, dischi bellissimi (“Medina”, 2000) e perle musicali (forse non vocali) sparse un po’ ovunque anche nella fase pop, quella nella quale “la gonna stretta” e “sale sale salirà” hanno troppo precocemente scarabocchiato i testi e le musiche che, semplicemente, ci hanno detto chi eravamo e siamo.

 

Ma non passa. E davvero “senza ‘e te nun so’ niente”. Oggi, un anno dopo, senza indugiare in necrologi posticci, senza prodursi in agiografie stantie, senza invocare presenze che non possono essere misurate in passaggi in radio a quintali di “Che male c’è”, “Se mi vuoi” e “Dubbi non ho”, vale la pena di verificare cursoriamente se la presenza di Pino Daniele rimanga viva, attiva, operante. Era morto il nostro John Lennon, chiosava un amico caro, quel cinque di gennaio: la città se ne è accorta, a tutti i livelli. Ed è rimasta attenta vigile, premurosa, memore custode.

 

Perché poi il punto è, sì, verificare la presenza dell’artista, della sua arte, nella città, a tutti i ilvelli dinamici della comunità istituzionalmente riconosciuta come tale; ma non si prescinde, non si vive, senza un tentativo di valutazione operato con strumenti interni, adoperando i quali si riconoscono le strutture normoregolative dell’atto performativo. In altri termini, si tratta di provare a fare il punto sull’incidenza di Pino Daniele nello sviluppo (non necessariamente sviluppo storicamente inteso) della musica. Ora, la lungimiranza rimane, a mio parere, il suo lascito più vistoso. Da avanguardista in servizio permanente effettivo (proprio nel senso di uno che sta trent’anni, o dieci, o quanti ne volete, avanti), ha reso metodo lo spostamento in avanti dell’asse epistemologico, ha impresso accelerazioni a certe tensioni dell’arte, viaggiando sempre sul filo del rasoio di quella “tensione in avanti” che apre strade, rivela tendenze, definisce obiettivi. E qua non si tratta di magnificare gli impasti sonori o la creatività innovativa partoriti intercettando Chick Corea, Wayne Shorter, Eric Clapton o, perché no, “abbassandosi” fino a J-Ax. Si tratta di capire, Napoli per Napoli, se Pino Daniele sia stato ingombro rallentante o, al contrario, fecondo propellente per lo sviluppo di un sound (o di più sounds) autenticamente world/neapolitan.

 

La seconda, ovviamente: se nel 2000 duettava meravigliosamente con Meg e Zulù (quanto attuale quel “È muorto ‘o rre, viva ‘o rre”), e già prima, meno incisivamente, con Raiz, se dunque mostra sul limitare del millennio di avere individuato una linea destinata a percorrere una strada autonoma e consapevole, ma carsicamente predisposta a intercettare la sua, Pino Daniele ha dialogato, sempre da primus inter pares, anche con anime meno nobili; si è inteso con la parte sana della tendenza neomelodica, quella che ha provato a contaminarsi tardivamente con l’etnico (Nino D’Angelo) e ci ha provato anche con Gigi D’alessio, esponendolo a una memorabile gragnuola di fischi – ancora una volta, simbolicamente – in Piazza Plebiscito. Quel Gigi D’Alessio che, spiace dirlo, eternamente uguale a se stesso, lo ha ripagato, son poche ore, con la più imbarazzante interpretazione possibile di “Napule è”: vale a dire, quella cosa che da quarant’anni reca lo stigma dell’universalità, attorno a cui si agglutina la coscienza di un popolo, che parla alla città della città, di come è, capace di rendere suono e immagine la divina malinconia che sappiamo magicamente far convivere con la gioia e il privilegio terribile di essere nati qua. Quella cosa nata nel 1977 – perché la versione è quella e nessun’altra – che andrebbe ritirata come la 10 di Maradona.

 

Esiste un effetto mirabile di composizione ad anello, nella vicenda artistica di Pino Daniele. Penso alla sua ultima parola salmodiata in sala d’incisione, entro le linee di un rap ruvido, scabro, incazzato, che parla di chi la guerra ce l’ha in casa, innocente, che piange madri in attesa di figli soldati che non torneranno più, una “Guerra di Piero” degli anni 2000: “Da che parte stai” del rapper Clementino, che nell’inciso reca la voce dell’artista piangere un “creature stanno senza libertà”. Libertà. Quella parola oggi “globale” che nel 1977 Pino Daniele proiettava, come Ken Loach, nel radicamento e nell’appartenenza (“terra mia, terra mia, tu sì chiena ‘e libertà”), descrivendo la solitudine eruttiva e ribelle di un ventenne di Santa Maria La Nova che vedeva la vita già sfuggirgli: “ma che succede, je sto chiagnenno penzanno a ‘o tiempo che se ne va, e cammina mmiezo ‘a via parlanno ‘e liberta”. Libertà. Del resto avvicinare un classico, E Pino Daniele è un classico, è una esondante esperienza di liberazione.

 

A Napoli, “dove tutto ha un senso, e c’è sentimento”.

Enrico Ariemma Docente di Lingua e Letteratura latina presso l’Università di Salerno. Uomo di inverni miti e di estati di passione, malato di Napoli e di filologia, in quale ordine non saprebbe dire. Chirurgo di testi per vocazione antica e per impegno accademico, prova con francescana ostinazione a educare alla Bellezza, dinanzi ai cui inattesi impercettibili cristalli si stupisce e si commuove. Per questo detesta con pervicace ostinazione il brutto, il crasso, il banale, il volgare. Stanziale da quarant’anni al San Paolo, legge, scrive, insegna, cavalca una moto, inforca gli sci, va per mare, vagabonda per mostre, viaggia per le leghe del pensiero e per le strade del mondo. Ama.