Il Politico da marciapiede con una testa da intellettuale.

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Lo ammetto: scrivendo di Pannella a poche ore dalla sua scomparsa, rischio di essere condizionato sia dalla mia ideale adesione a tutte le battaglie radicali sia da un eccesso di coinvolgimento emotivo.

Eppure, dovrò sforzarmi di mantenere la giusta distanza, di celebrare la vita (e non la morte!) di Marco Pannella nel modo più obiettivo possibile.

Adesso che si sprecano le parole, i falsi ricordi di chi non l’ha mai capito, l’immancabile ipocrisia di chi lo ha sempre osteggiato, le condoglianze dei suoi detrattori, va sgomberato il campo dalle forme di retorica commozione di cui il Paese si nutre con eccessiva disinvoltura.

Pannella è stato un personaggio scomodo, disturbante, non omologato né omologabile per l’Italia. “Uno scandalo inintegrabile”, secondo una geniale definizione pasoliniana.

Adesso che se ne andato, che non è possibile ironizzare sui suoi proverbiali scioperi della fame e della sete, che non si può più trattare l’unico vero politico della storia repubblicana alla stregua dello scemo del villaggio, sarebbe il caso di interrogarsi su un punto: è Pannella che non ha compreso questo Paese o è il contrario?

Probabilmente – ma ripeto: chi scrive è di parte – la seconda soluzione è da privilegiare.

Ripercorrere l’attività politica di Pannella ci permette di passare in rassegna alcune delle vicende più imbarazzanti della storia italiana. Prendiamo come paradigma il caso Tortora, diventato l’emblema dell’errore giudiziario, della tortura mediatica, della spettacolarizzazione di certe inchieste che conduce a risultati aberranti. Di Pannella, sempre in prima linea per una giustizia più giusta, ricordiamo il tradizionale appuntamento natalizio in compagnia dei detenuti, in visita nei fatiscenti penitenziari italiani, sempre dalla parte dei rinnegati, degli individui che la società scarica, rifugge, guarda con disprezzo, siano essi condannati o in attesa di giudizio.

Non mi batto per il detenuto eccellente, ma per la tutela della vita del diritto nei confronti del detenuto ignoto, alla vita del diritto per il diritto alla vita”. Battaglie tanto condivisibili quanto impopolari, solitarie, testarde, combattute lontano dai riflettori, tra l’ostracismo delle televisioni nazionali, lo scetticismo della stampa e la disapprovazione dell’opinione pubblica. A tutela di idee e programmi non conciliabili con un Paese bigotto, troppo distratto e indifferente per sentir parlare di carceri civili, del diritto a un trapasso dignitoso, di smilitarizzazione delle camere da letto.

Io sono un cornuto divorzista, un assassino abortista, un infame traditore della patria con gli obiettori, un drogato, un perverso pasoliniano, un mezzo-ebreo mezzo-fascista, un liberalborghese esibizionista, un nonviolento impotente. Faccio politica sui marciapiedi”. Un politico da marciapiede con un cervello raffinato da intellettuale controcorrente. Ebbe il merito di trascinare pure Sciascia dalla sua parte. “Le cose che ha detto Pannella le dice da sempre, ed io sono perfettamente d’accordo con lui. La forza della democrazia sta nella capacità di convincere”.

La politica italiana degli ultimi decenni c’ha insegnato il contrario: vincere a tutti i costi, pure col trucco, in maniera spregiudicata, sulla pelle della gente. Come sulla fecondazione assistita. Non si riuscì a superare il quorum al referendum ma, quando un principio è giusto, sacrosanto, prima o poi, si trovano giudici e tribunali pronti a riconoscerlo. Anche a distanza di qualche anno.

Quando il Parlamento italiano, nel 2004, approvò quella legge liberticida, in un moto di indignazione provai a sfogare il mio dissenso telefonando a Radio Radicale.

Dall’altra parte c’era Pannella, all’epoca parlamentare europeo. Ero in diretta. “Buonasera Onorevole”. “Non mi chiami Onorevole: sono Marco”. “Guardi: se non è Onorevole Lei, nessuno può fregiarsi di questo titolo”. Fedele a se stesso, Pannella ha seguito alla lettera il consiglio di Pasolini dato ai radicali nel 1975: “Continuare imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare”. Antiproibizionista, provocatorio, ateo, anticlericale a suo modo, per certi versi blasfemo, eppure dotato di una grande religiosità laica, c’ha insegnato ad amare con ostinazione il diritto, la giustizia, la libertà e la vita più di ogni altra cosa.

Gianluca Spera, classe 1978. Di professione avvocato da cui trae infinita ispirazione. Scrittore per vocazione e istinto di conservazione. I suoi racconti “Nella tana del topo” e “L’ultima notte dell’anno” sono stati premiati nell’ambito del concorso “Arianna Ziccardi”. Il racconto “Nel ventre del potere” è stato pubblicato all’interno dell’antologia noir “Rosso perfetto-nero perfetto” (edita da Ippiter Edizioni). Autore del romanzo "Delitto di una notte di mezza estate" (Ad est dell'equatore)" Napoletano per affinità, elezione e adozione. Crede che le parole siano l’ultimo baluardo a difesa della libertà e dei diritti. «L'italiano non è l'italiano: è il ragionare», insegnava Sciascia. E’ giunta l’ora di recuperare linguaggio e ingegno. Prima di cadere nel fondo del pozzo dove non c’è più la verità ma solo la definitiva sottomissione alla tirannia della frivolezza.