Il potere delle parole

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Io non sono innocente, io sono estraneo”, Enzo Tortora lo ha ripetuto con ostinata tenacia per tutta la durata del suo travaglio protrattosi per la bellezza di 1.768 giorni, dall’arresto del 17 giugno 1983 fino al giorno della sua scomparsa, avvenuta il 18 maggio 1988, a soli undici mesi dalla definitiva assoluzione sancita dalla Corte di Cassazione. Oltre le implicazioni giudiziarie di cui si è ampiamente dibattuto negli ultimi trent’anni, merita una qualche attenzione il linguaggio sapientemente calibrato da Tortora per difendersi dalle accuse calunniose che gli venivano mosse.

Egli ha sempre risposto a quelle inverosimili insinuazioni con un sarcasmo geniale che trasformava sia l’incredula indignazione che la lucida disperazione in una ingegnosa ed efficace forma di autodifesa.

Alla grammatica pigra e banale dei suoi denigratori, seppe opporre un lessico meticoloso e brillante.  Anche se nella prima fase della vicenda processuale che lo coinvolse, quel suo retroterra culturale, insolito per un presentatore di un popolare programma televisivo, rappresentava un fastidio per molti, paradossalmente quasi una conferma delle accuse o addirittura un’aggravante. “Bisogna temere quelli che hanno studiato”, si ripeteva nelle pubbliche piazze.

Al teorema giudiziario, si aggiunse quello formulato da un’opinione pubblica superficiale, sempre in prima linea, allora come oggi, quando si tratta di azionare la gogna nei confronti del malcapitato di turno. A quel gioco al massacro si unirono anche insospettabili settori della stampa illuminata, degli ambienti liberali, dei circoli solitamente garantisti. A un certo punto, con un’incredibile inversione dell’onere probatorio non fu più l’accusa a dover dimostrare la colpevolezza ma, al contrario, Tortora la sua innocenza.

Qualcuno arrivò perfino a titolare su una presunta quanto improbabile confessione. In assenza, non diciamo di prove, ma almeno di indizi che dessero un minimo di fondamento ai sospetti, continuò l’accanimento sull’imputato. Venne ripetuto fino alla noia che non poteva non essere un camorrista, che non era in grado di fornire le motivazioni di quella fantomatica congiura, che con i voti criminali aveva ottenuto un seggio al Parlamento europeo, salvo omettere che Tortora rinunciò all’immunità parlamentare e affrontò il processo da recluso. Senza nessun timore reverenziale. Fino a sfidare i giudici del procedimento di appello: “Io sono innocente, spero con tutto il cuore che lo siate anche voi“.

Dopo quelle parole finalmente giunse l’assoluzione con formula piena, confermata poi in Cassazione, che cancellò definitivamente la pesante condanna comminata in primo grado, le ombre e il disonore per chi era diventato, suo malgrado, il simbolo negativo di quel maxi processo contro la camorra. Pochi mesi dopo si verificò la tragedia conclusiva del suo lungo calvario. Tortora aveva deciso di essere cremato.

Nell’ultimo viaggio, scelse di essere accompagnato dai suoi inseparabili compagni: gli occhiali, che lo avevano aiutato a decifrare gli atti astrusi di quell’enigmatico processo, e la “Storia della colonna infame” di Manzoni, l’edizione con la prefazione del suo grande amico Leonardo Sciascia. “Speriamo che il mio sacrificio sia servito a questo Paese e che la mia non sia un’illusione”, disse prima di congedarsi. Invece, l’Italia attuale, che ha conservato il vizio insopportabile di sbattere il mostro in prima pagina alimentando insistentemente un cortocircuito mediatico-giudiziario, è più simile alla Milano del 1630, dove si provvedeva prima a squartare gli “untori” e poi ad erigere una colonna che fungesse da simbolo di dannazione eterna per tutti questi “infami”, che a quella immaginata da Tortora. Il fatto è che Tortora è stato sbeffeggiato anche da morto.

Uno dei suoi grandi accusatori fu assolto dal reato di calunnia con una motivazione piuttosto bizzarra salvo poi chiedere scusa, durante un’intervista all’Espresso nel 2010, per averlo deliberatamente “distrutto”. Era pronto ad inginocchiarsi. Le figlie di Tortora gli consigliarono di restare in piedi. Silvia, la sorella maggiore, ha ricordato poco tempo fa come Manganelli, ex capo della Polizia, di recente scomparso, commentò la vicenda: ”quella di tuo padre è stata la merda più gigantesca della storia”.

Gianluca Spera, classe 1978. Di professione avvocato da cui trae infinita ispirazione. Scrittore per vocazione e istinto di conservazione. I suoi racconti “Nella tana del topo” e “L’ultima notte dell’anno” sono stati premiati nell’ambito del concorso “Arianna Ziccardi”. Il racconto “Nel ventre del potere” è stato pubblicato all’interno dell’antologia noir “Rosso perfetto-nero perfetto” (edita da Ippiter Edizioni). Autore del romanzo "Delitto di una notte di mezza estate" (Ad est dell'equatore)" Napoletano per affinità, elezione e adozione. Crede che le parole siano l’ultimo baluardo a difesa della libertà e dei diritti. «L'italiano non è l'italiano: è il ragionare», insegnava Sciascia. E’ giunta l’ora di recuperare linguaggio e ingegno. Prima di cadere nel fondo del pozzo dove non c’è più la verità ma solo la definitiva sottomissione alla tirannia della frivolezza.