Il tempo dei lavoratori, troppo spesso, non ha alcun valore.

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di Elio Goka

È stato Al culmine della disperazione che Cioran ha scritto “Il lavoro è una maledizione che l’uomo ha trasformato in piacere”. Nei secoli lo ha così dannatamente battuto in lungo e in largo da viverlo soprattutto come luogo di conflitto. Oltre, ancora oltre, come Joseph Conrad confessa inCuore di tenebra: “Nel lavoro c’è la possibilità di trovare se stessi”.

La Festa dei lavoratori in molti paesi del mondo viene celebrata il primo maggio. Le sue origini risalgono al Diciannovesimo secolo, quando, negli Stati Uniti d’America, una dura battaglia sindacale conduce i lavoratori al raggiungimento di un obiettivo molto importante, quello della promulgazione di una legge, approvata nel 1867, sull’orario di lavoro. La Prima Internazionale del Lavoro avrebbe successivamente chiesto che gli stessi provvedimenti venissero adottati anche in Europa. Negli anni successivi i contrasti tra i movimenti operai e le proprietà industriali si rivelano molto aspri. La repressione delle forze di polizia statunitensi è feroce e spietata. Ecco che, alla fine dell’Ottocento, in seguito a violente repressioni della polizia e alle impiccagioni di alcuni anarchici e sindacalisti, “rei” di aver organizzato manifestazioni di protesta per le otto ore di lavoro, dal Canada all’Europa viene ratificata la data del primo maggio come commemorativa delle battaglie operaie volte alla conquista dell’orario di lavoro fissato in otto ore.

Il Primo maggio è qualcosa che si lega irrimediabilmente al tempo. Niente è più prezioso del tempo, neanche il denaro. Il tempo è l’unità di misura di quel grande assurdo che è la vita.  Sin dall’antichità il lavoro, inteso come strumento di garanzia della sopravvivenza, è entrato in conflitto con quello di affermazione dell’individuo attraverso metodi che non costassero fatiche e sofferenze. Ma non è solo su questo che il Primo maggio poggia la sua dignità. Del resto, sarebbe altrettanto faticoso e fuorviante soffermarsi sulle più antiche teorizzazioni sindacali – benché quelle odierne necessiterebbero di recuperarle – da Omero a Esiodo, dalla concezione del servo di Teognide a quella della pena (intesa come fatica) di Pindaro. Sì, perché l’osservatorio sull’uomo lavoratore nasce con le prime forme di organizzazione economica, sin dai più primitivi modelli di collettività. Di fatto, però, la macchina del lavoro, intesa come sistema diretto al soggiogamento dell’uomo, ha sempre badato a tenere alla larga quest’ultimo da quanto mirabilmente avvisato da Aristotele. “Non è il tempo libero a costituire la fine del lavoro, piuttosto è il lavoro a costituire la fine del tempo libero”. Se la ricchezza intesa come disponibilità al denaro, invece che del denaro (come andrebbe interpretata), non avesse confinato l’uomo dentro se stesso, questo sistema di preponderanze e di aree residuali oggi sarebbe invertito e non possiamo immaginare come sarebbe il mondo se così fosse avvenuto.

Tutto è trascorso a considerare destabilizzanti e pericolosi i dubbi sull’attendibilità che certe nomenclature (diritto al lavoro, a ciascuno il lavoro, et cetera) fossero realmente nobilitanti per l’uomo (dai filosofi antichi ai teorici dell’anarchia contemporanea il coro di perplessità è nutrito). Tutto è trascorso ad alimentare il privilegio anche davanti al desiderio. Come scrive Laborit neL’elogio della fuga, “L’uomo è un essere di desiderio. Il lavoro può solo soddisfare i suoi bisogni. Sono rari i privilegiati che riescono a soddisfare i bisogni dando retta al desiderio. Costoro non lavorano mai”.

La civiltà industriale ha acuito brutalmente l’oppressione del tempo sui metodi di lavoro. Per Edward P. Thompson, autore del saggio Tempo e disciplina del lavoro, il cronometro piomba tra l’uomo e il lavoro con l’avvento definitivo delle macchine, con la trasformazione dell’artigianato familiare in grande industria, con la sincronizzazione dei ritmi e dei movimenti. Il tempo di lavoro non è più discontinuo e discrezionale, ma continuo, sistematico, regolare, disciplinato, a dispetto di un “principio di piacere” (allegoricamente intendibile) che eviti al lavoratore di subire la fatica come norma imposta e inevitabile. La totale distruzione dell’entusiasmo. L’élan vital muore sotto i colpi di una dittatura esistenziale che, come ampiamente temuto e verificato dalla letteratura moderna e contemporanea (da Kafka a Deleuze il passo è breve), si riflette su tutto il sistema di vita moderno (come sottolineato dallo stesso Thompson) fino a sostituirlo. Lo schiavismo silenzioso e apparentemente indolore. E non si dimentichi che solo per una minoranza la sferza è stata sostituita da leggi e regolamenti e che le catene sono state rimpiazzate da padroni senza volto, ma il vento caldo e sabbioso dello sfruttamento soffia ancora su molte teste.

Intanto, il nuovo millennio ha approvato definitivamente la legge di depressione. Il tempo dei lavoratori, troppo spesso, non ha alcun valore. In Italia questa cultura è drammaticamente radicata. Anche le attività intellettuali, anche quelle creative, anche quelle del pensiero, sono schiave del cronometro. Che abbiano preso alla lettera l’Auto da fé di Eugenio Montale? “Perché si lavora? Certo per produrre cose e servizi utili alla società umana, ma anche, e soprattutto, per accrescere i bisogni dell’uomo, cioè per ridurre al minimo le ore in cui è più facile che si presenti a noi questo odiato fantasma del tempo”.

Non è finita qui. C’è da ossequiare il grande manifesto della politica di dominio e di controllo, secondo cui tutto questo è irrimediabile e deve rientrare nella perpetua condanna dell’uomo alla vita. Pure la mitologia ha fallito, tramite il suo Prometeo che ancora nutre l’aquila col suo fegato. Neppure il sadico sarcasmo dell’Arbeit macht frei, “Il lavoro rende liberi”, manifesto della derisione nazista a dispetto dei deportati, ha detto fermati all’intendimento dell’uomo davanti a uno dei grandi nodi della sua storia. Il tempo e il lavoro sono come l’idrogeno e l’ossigeno. Separatamente pericolosi, vitali insieme. Chi mostra comportamenti riluttanti, reazioni evasive e ambigue, definendo questa tragedia antica un archetipo superato di idealismo, coltiva soltanto malafede. Trascura, o vuole nascondere, che niente è più consistente, reale, tangibile, pragmatico, della vita di un uomo, e che niente può mutuare il valore del suo tempo. Domandare il tempo significa oltrepassare il confine tracciato tra un’umanità e l’altra. Quale altissimo senso dell’attenzione dovrebbe richiedere una simile interazione che col vivere ha così tremendamente a che fare? Il resto è soltanto un sistema d’inganni.

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