Ischia, il museo diocesano si rinnova: full immersion moderna di storia e spiritualità millenarie. Esposto per la prima volta il sarcofago di Bethesda nel segno della “rinascita”.

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di Claudia Procentese

Il museo diocesano di Ischia ha aperto le sue sale dopo il rifacimento del palazzo vescovile durato due anni. Un nuovo inizio simbolico per il Mudis dopo lo stop forzato, anche a causa della pandemia, che punta a lanciare un messaggio di speranza oltre che di conoscenza e che vede impegnato il direttore don Emanuel Monte in un’opera di promozione inclusiva.

Nuovi spazi, didascalie e approfondimenti testuali pensati per parlare a tutti, un allestimento moderno alla scoperta della storia dell’isola definita delle cento chiese, prima colonia greca in Occidente, ma anche vivace centro culturale e religioso del Mediterraneo di ogni epoca. La novità del sarcofago di Bethesda concretizza in un’esperienza unica il percorso spirituale che si intreccia con quello espositivo, accompagnando il visitatore in una coinvolgente riflessione sul senso della vita, superando la caducità del contingente. Il museo diocesano, lontano dalla vecchia e limitata concezione di sacrestia visitabile, diventa così soggetto culturale formativo e risorsa territoriale, “diffuso” tra i beni musealizzati e quelli ancora in loco sparsi nei vari edifici e spazi sacri.

Don Emanuel, quella dello scorso maggio è una riapertura. Ma quando e perché nasce il museo diocesano di Ischia?

Il museo diocesano è stato istituito come ente nel 1995 da monsignor Antonio Pagano, l’allora vescovo di Ischia, ed inaugurato nel 2000 in alcune sale del Palazzo del Seminario ad Ischia Ponte.

Quindi è una fondazione recente?

Non proprio, l’iter di gestazione è più lungo. L’esigenza di creare un punto di raccolta e di conoscenza del patrimonio storico-artistico e religioso custodito sull’isola è di qualche anno addietro. Non dimentichiamo che all’inizio degli anni Cinquanta, la tenacia e la dedizione di don Pietro Monti, rettore della basilica di Santa Restituta a Lacco Ameno, durante la fortunata sostituzione di un pavimento, lo portarono ad intraprendere significativi scavi archeologici di un complesso sotterraneo alla chiesa, un viaggio unico attraverso i secoli, fasi greche, romane, paleocristiane, medievali, mostrando strutture, reperti e ricostruzioni. Qui il processo di musealizzazione è avvenuto nei luoghi stessi del rinvenimento. L’intera area archeologica e il museo di Santa Restituta, oggi purtroppo chiuso per risistemazioni tecniche, diventano con don Pietro una realtà viva, un richiamo culturale prolifico che inizia a tracciare la faticosa e affascinante strada per la tutela e la divulgazione di questi preziosi beni. Don Pietro, ricordiamolo, è coetaneo di un altro insigne studioso di Ischia, l’archeologo Giorgio Buchner, con cui collaborò in una stagione assai feconda.

Dunque è stato un cammino a tappe?

Don Emanuel

Sì, successivamente con l’arrivo di monsignor Pietro Lagnese, nostro vescovo in questi ultimi otto anni prima che, a maggio, la diocesi di Ischia si unisse a quella di Pozzuoli, si è pensato di ristrutturare il settecentesco Palazzo del Seminario. La motivazione primaria era quella di privarlo delle barriere architettoniche non solo nell’episcopio, la casa del vescovo, ma anche in tutti gli uffici della diocesi. I lavori sono durati due anni e si è ricavata un’altra area nel palazzo a piano terra, da dedicare per l’appunto al museo rimesso a posto. Monsignor Lagnese, inoltre, ha voluto rendere fruibile a tutti, cioè esporre per la prima volta al pubblico, anche le opere d’arte che erano nell’appartamento privato del vescovo, confinate in un luogo riservato e perciò finora non visibili ai più. Come il famoso sarcofago di Bethesda, protagonista della mostra visitabile al Mudis fino a novembre dal titolo “Tempio divino, i sarcofagi di Bethesda e l’avvento del Salvatore nel Mediterraneo”, realizzata in collaborazione con i Musei vaticani e il Museo archeologico di Napoli e già presentata presso il Museo Pio Cristiano nel 2019.

Sarcofago di Bethesda, cos’è?

Si tratta di una particolare tipologia di sarcofagi, realizzata alla fine del IV secolo d.C. e diffusa lungo le sponde del mar Mediterraneo, dalla penisola iberica all’Africa, su cui è raffigurato nello spazio centrale Gesù che guarisce il paralitico alla piscina di Bethesda in Gerusalemme, come riportato dal Vangelo di Giovanni. Di tali sarcofagi si conoscono sedici esemplari e solo tre presentano il fregio anteriore integro. Un sarcofago è stato rinvenuto durante la costruzione della cinquecentesca basilica di San Pietro ed è conservato in Vaticano, un altro è affisso dal Medioevo sulla facciata della cattedrale di Tarragona e il nostro ad Ischia era murato fin dalla seconda metà dell’Ottocento sull’architrave d’ingresso di una delle stanze dell’episcopio. La lastra istoriata d’Ischia con molta probabilità, ma è un’ipotesi, appartiene al sepolcro marmoreo della famiglia Cossa, dunque proverrebbe dal Castello aragonese. Grazie all’attenzione dei Musei vaticani che hanno sollecitato un delicato intervento di distacco dalla parete ed un accurato restauro, il primo in assoluto per il nostro esemplare, nell’attuale mostra al Mudis l’esposizione congiunta dei due capolavori, ischitano e vaticano, incanta tutti, fedeli e non.

Qual è il significato di questi sarcofagi?

Sono una testimonianza incontrovertibile di un fervido scambio interculturale nel Mediterraneo antico, di cui Ischia era parte attiva. È il Mare nostrum che unisce i popoli, strumento di quel dialogo un tempo così intenso che li ha arricchiti e che oggi invece esprime la loro difficoltà di coabitazione. E come è avvenuto questo dialogo? Attraverso l’arte, attraverso lo scambio di materiali, modelli, matrici. Poi c’è il significato di fede. Il Mediterraneo è teatro della diffusione dei Vangeli e di una nuova concezione cristiana della morte.

Cioè?

Le scene raffigurate sul sarcofago sono cinque: oltre alla guarigione del paralitico di Bethesda, ci sono la guarigione dei due ciechi a Cafarnao, la guarigione dell’emorroissa, la chiamata di Zaccheo e l’ingresso di Gesù in Gerusalemme. Tutti episodi ripresi dal Nuovo Testamento, ma ad esempio il sarcofago ischitano si distingue da quello lateranense perché sotto la pancia dell’asinella cavalcata da Gesù spunta un puledrino che sgambetta, quindi l’evangelista di riferimento è sicuramente Matteo che nomina il puledrino. L’insieme di queste scene costituisce un chiaro programma iconografico nel quale Gesù taumaturgo risana dalle malattie e salva dalla morte.

I sarcofagi perciò non sono solo tombe lussuose ma rappresentano una sorta di vangelo didattico in attesa del “tempo divino”, della rinascita a nuova vita?

Esatto, celebrano il trionfo glorioso di Cristo che si attualizza in un messaggio di speranza.

Pithekoussai o Bethesda sono alcuni dei capitoli di un racconto isolano ultramillenario, ma il museo annovera tra le sue opere anche pregevoli dipinti del ’500 ed argenterie del ’700.

Sì. Ed anche alcune reliquie come il braccio di sant’Andrea. Un pezzo straordinario. Recenti studi ne stanno approfondendo l’autenticità attraverso il confronto con la testa dell’apostolo nella cattedrale di Amalfi.

Nella mission del museo emerge prioritaria “la ricerca del senso della vita”. Come si concilia tale ragion d’essere con la presenza di un turismo spesso superficiale da avventori mordi e fuggi?

Occorre riportare il timone verso una riflessione più profonda. È tutto nella chiave di lettura che abbiamo dato al nuovo allestimento. L’itinerario espositivo comincia con la morte, cioè con due tombe paleocristiane, e man mano andando avanti il visitatore arriva all’incontro con il sarcofago di Bethesda che è l’annuncio della vita dopo la morte, testimonianza di Cristo salvatore. La meta ultima è la vita eterna. Non possiamo fermarci alla superficie, la visita al museo diocesano invita a spingerci al di là. Siamo chiamati a riscoprire ciò che appartiene alla comunità in senso umanistico prima che turistico.

E allora cosa direbbe ad un turista che in questi giorni sbarca ad Ischia?

Gli direi che il vero viaggio è quello di conoscenza E raccontare in un museo la cultura materiale dell’isola significa apprendere la storia completa di un popolo, dei suoi culti e delle sue tradizioni. Il Mudis stesso è itinerante, ha due sedi, una sezione archeologica a Lacco Ameno e quella legata all’arte sacra del palazzo vescovile dove sono presenti anche un archivio ed una biblioteca che allargano gli orizzonti del sapere.

Quando e come è visitabile il Mudis?

Per ora, in zona bianca, non ci sono problemi di prenotazione. Siamo aperti il martedì dalle 17,30 alle 19,30, il venerdì stesso orario ma in più dalle 21 alle 23, il sabato dalle 10,30 alle 12,30 e dalle 17,30 alle 19,30 e la domenica dalle 10,30 alle 12,30.

L’unione della diocesi di Ischia a quella di Pozzuoli ha cambiato qualcosa?

Parlare di cambiamento è prematuro, Ischia rimane per ora diocesi, dal punto di vista giuridico-amministrativo nulla è mutato. Papa Francesco ha nominato vescovo della diocesi di Ischia monsignor Pascarella, vescovo di Pozzuoli, unendo “in persona Episcopi” le due diocesi. Il vescovo Pascarella adesso sta ascoltando e conoscendo tutti, coadiuvato da un vescovo ausiliare. Ischia conta milioni di turisti all’anno, ha una capacità ricettiva enorme ed un flusso di viaggiatori pari ai due terzi della popolazione di tutta la Campania: questi numeri fanno capire che dal punto di vista ecclesiale l’isola può restare diocesi.

E un museo sull’isola verde che ruolo può avere?

Rispondo con un appello. Come direttore invito tutte le famiglie a visitarci, portate i vostri bambini, i giovani si stanno allontanando dall’arte intesa come identità che ci definisce. I musei rappresentano la testimonianza storica delle nostre comunità, ne sono la memoria che permette loro di perpetuarsi nel tempo. Il museo diocesano conserva oggetti nati a servizio del culto e i culti fanno la nostra storia.  

"Dentro di noi c’è una cosa che non ha nome, e quella cosa è ciò che siamo" (José Saramago)