Perché sabato sarò a Roma per manifestare per la Pace

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di Mario Cosenza
Della manifestazione non mi convince tutto, peraltro ci sono state aperture anche del PD, il quale dovrebbe fare pace con il cervello, dato che questa manifestazione è l’esatto contrario delle loro ridicole zingarate fuori le Ambasciate o delle vere e proprie manifestazioni belliche dei Calendiani.
Ci sono sigle che apprezzo, altre meno, sponde cattoliche ad ora necessarie (e meno male, dato che Papa Francesco è di gran lunga il più lucido del pianeta sul tema), di tutto un po’, ma questo è il blocco creatosi. I distinguo, ora, mi annoiano e lasciano freddo; neanche io apprezzo tutte le parole d’ordine scelte, mi sembrano tiepide, ma ora urge un compromesso non solo tra i belligeranti, anche tra le nostre fazioni atomizzate.
Il punto a mio parere è solo uno: serve massa critica per mettere pressioni ai governi. Non ogni manifestante è tenuto a sapere per filo e per segno cosa sarebbe giusto fare per arrivare alla fine del conflitto, né tutti dovrebbero concordare tra loro. Ma, in una fase storica di chiusura degli spazi di partecipazione, di post-democrazia che ignora ogni minimo legame di rappresentanza, una piazza resta un metodo fondamentale per farsi sentire (fosse anche per la coscienza del singolo, sì).
Nessuno si illude che una manifestazione a Roma cambi le sorti del conflitto, eppure se i governi nazionali iniziassero a sentire il fiato sul collo – i sondaggi lo dicono già chiaramente cosa gli italiani pensano di questo conflitto: non vogliono saperne – dovrebbero alla lunga spendersi per l’obiettivo principale, che, a  mio parere, diplomaticamente è solo uno: che gli USA si siedano al tavolo con la Russia.
Non si tratta di voler bypassare gli ucraini – che ovviamente dovrebbero siedere a quel tavolo, così come tutte le potenze implicate -, ma bisogna essere chiari, dopo 8 mesi, è chiaro che quello che accade è una guerra per procura, in cui il sangue lo mettono gli ucraini e le armi noi. Senza una pressione degli alleati (zerbini) atlantici affinché il dominus si presti al dialogo, non c’è via possibile. Io la penso così.
Ciò non vuol dire parteggiare né per gli uni né per gli altri, dare patenti definitive di “ragione”, il cul-de-sac è è evidente, il diritto ucraino a difendersi non è mai stato messo in dubbio, ma noi abbiamo il dovere di dirci Noi come paese e Noi come singole coscienze cosa possiamo fare. A mio parere, quello che possiamo fare è spingere affinché coloro ai quali si è delegato pressoché tutto si incontrino. Questo, dal lato italiano, semi-protettorato USA, può essere dato solo da una spinta di piazza. Non ci sono altre vie che non siano peggiori. Male minore, compromesso, chiamatelo come vi pare: i governi più potenti del mondo devono parlarsi, il resto, sì, è ingenuità; noi, come Stato minore e non sovrano, dobbiamo quantomeno pressare coloro che dominano la nostra politica estera.
Io non ho l’ambizione di dire cose decisive su come risolvere territorialmente, economicamente, diplomaticamente la cosa, ma so che continuare ad armare senza condizioni una parte (che, anche se a qualcuno fa male sentirlo, è governata da fanatici nazionalisti) non serve a nulla se non a prolungare la cosa in maniera insostenibile, così come mettere all’angolo una potenza nucleare, il cui destino, in caso di caduta del violento autocrate che detiene il potere, sarebbe quello di finire in mano nazionalisti ancora più estremi.
Per le colpe e le fazioni rimane la Storia, noi abbiamo, da cittadini che ambiscano ad essere sovrani (quantomeno psichicamente), il dovere assoluto di dire che questo delirio non è il nostro delirio: non è cinismo (che patente orrenda), così come non  è ingenuità desiderare il trionfo del “bene”.
Ma a noi resta solo il dire “non in nostro nome”, a soffrire interiormente per quello che vediamo, e mettere a disposizione un tentativo di razionalità.
Pura testimonianza, ma l’alternativa è la depressione.

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