Quel che resta del Napolicentrismo

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di Giuseppe Pesce

Nei giorni scorsi, nel dibattitto – per la verità piuttosto stanco e deprimente – sulle prossime amministrative, per la prima volta ho sentito parlare, con cognizione, di una dimensione “metropolitana” della sfida napoletana. Non ne ha parlato una giovane promessa delle nuove generazioni (le cui forze migliori, da sempre mortificate, continuano a scappare in un’insanabile emorragia), ma una figura storica della politica napoletana e meridionale come Antonio Bassolino: già sindaco, già governatore, già ministro, già dirigente di partito. Già tutto, insomma. Che però negli ultimi tempi è un appassionato e attento osservatore di ciò che accade in città; e che, quando interviene nel dibattito, dà la misura dell’inadeguatezza e della cafonaggine in cui è precipitata l’attuale classe che guida Comune e Regione.
Non è un problema di “revival” o di nostalgia, di “si stava bene quando si stava peggio”. Anzi, molti errori di visione – il cosiddetto “Napolicentrismo”, per intenderci – appartengono in pieno anche all’epoca in cui Bassolino era al potere. Ma in trent’anni sono cambiate molte cose. Come dappertutto, crisi striscianti hanno sconvolto l’economia e debilitato la democrazia. Il “Napolicentrismo” di trent’anni fa, per quanto opinabile, era un’idea strategica di forza e respiro, rispetto a una politica cittadina precipitata negli anni ai livelli di circolo borghese di quartiere, o peggio ancora di sagra da “paese del sole” (mentre la Regione si andava riducendo a una “provincia” della nuova repubblica marinara di Salerno).
In mezzo a questa deriva, tra ingenui magistrati tirati per la giacchetta dalla peggio politica di destra, scattanti manager del disastrato trasporto pubblico, ed eterne proposte di un’improbabile borghesia logorata dalla “falsa coscienza” (abituata a riscrivere persino la storia dei propri fallimenti), Bassolino è uno dei pochi che parla, con cognizione, di una città che è profondamente cambiata, nei confronti della quale bisogna ragionare in una dimensione metropolitana.
«Ogni riflessione sulla città di Napoli – ha spiegato in una recente intervista a Metropolis – deve tenere conto di nuovi poteri da affidare da una parte alle municipalità e alla città metropolitana dall’altra. La grande Napoli è una metropoli singolare: tre milioni di abitanti che vivono in incredibile continuità territoriale. Tutto deve essere ripensato in questo quadro: dalla risorsa mare dell’area flegrea alla penisola sorrentina, i trasporti su gomma e su ferro, l’urbanistica, i reinsediamenti produttivi, la digitalizzazione della p.a. e dei servizi. È anche così che i sindaci delle grandi aree metropolitane possono far pesare a livello nazionale in modo giusto e forte i territori che rappresentano e collaborare convintamente con i governi centrali e regionali».
Ma di cosa stiamo parlando, quando parliamo di “area metropolitana”? E più in particolare dell’hinterland, di quella “corona di spine”, di quella “cintura” di comuni legati senza soluzione di continuità alla città? Parliamo di un entroterra che per disinteresse, per errore o per calcolo, la città finora non è mai riuscita – e non ha mai voluto – organizzare adeguatamente. E che, anche se potrebbe essere l’area metropolitana più grande del Mezzogiorno, è in realtà solo una specie di immensa medina che strozza la vecchia capitale.
Di questa “Mega-Napoli” – «orrenda degradata periferia africana (senza metropolitana, senza collegamenti, senza vie di sbocco, e intasata dal traffico) che stringe come un boa tra le sue spire la città e la stritola» – parlava già Raffaele La Capria nel 1998; spiegando che «il vero problema “irrisolvibile”» di Napoli era proprio «la riqualificazione di questa megalopoli che ha preso il posto della città di una volta».
Giuseppe Montesano nel 2001 la paragonava a un «Grande Deserto» in cui «è all’opera da decenni una profonda follia, una follia della coscienza che si manifesta come abusivismo protetto, mancanza di regole, rovesciamento di qualsiasi valore»; e in cui «domina una sola vera legge, farsi i cazzi propri e sopravvivere, e nelle sue sabbie immobili tutto è permesso».
Francesco Patierno ci ambientò nel 2003 il suo “Pater familias”, mentre molti anni più tardi, il “paesologo” Franco Arminio, sempre garbato e un po’ malinconico, l’ha attraversata dedicandole piccole elegie di luoghi che vivono morendo, in un degrado fisico e morale, urbanistico e sociale. Il perché lo dice in un inciso: “Perché questi paesi hanno subito l’onda dirompente di Napoli e non hanno saputo difendersi”. Ecco il punto. Una provincia che è solo una periferia – politica e urbana, sociale e antropologica – del “Napolicentrismo”.
Ma il degrado di questo hinterland, periodicamente esposto al saccheggio dei mass-media, non è solo un fatto geografico, ovvero locale, provinciale. È un fatto storico, che ha qualcosa a che fare con lo sviluppo (senza progresso) di una grande città come Napoli. Traffico, micro (e macro) criminalità, disastro ambientale, congestione edilizia, e tutte le conseguenze antropo-sociologiche connesse: i problemi dell’area metropolitana sono in realtà i problemi di Napoli, che nei decenni la metropoli ha preferito decentrare geograficamente, anziché risolvere. È una “metropoli imperfetta”, Napoli, che ha costruito (e continua a progettare) il proprio sviluppo a discapito della provincia, che ha trasformato in una sterminata periferia.
L’hinterland è l’altra metà del cosiddetto “Napolicentrismo”: chilometri di degrado che corrono lungo la circumvallazione esterna, che da Casoria porta a Lago Patria. E lungo l’Autostrada del Sole o la Statale Sannitica, che portano a Caserta: dove spuntano, come miraggi tra i miasmi delle paludi dei Regi Lagni, la stazione TAV di Afragola, l’inceneritore di Acerra e decine di piccoli e grandi centri commerciali.
Nella provincia di Napoli manca ogni pianificazione. Provate a leggere il vecchio PTCP (Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale): non è altro che una codificazione del caos ambientale e urbanistico, di cose che si potrebbero, ma in realtà non si possono fare. Per tanti motivi. Per tanti interessi. Ma soprattutto perché Napoli non ci crede, all’idea metropolitana. Non ci ha mai creduto, e ha preferito collassare, anziché decentrare nell’hinterland delle funzioni ‘qualificanti’ per il territorio. Meglio scaricarci il ‘troppopieno’: monnezza disseminata in centinaia di piccole discariche, edilizia popolare e post-terremoto dimenticata (il caso più eclatante è Secondigliano, ma ci sono anche le Salicelle di Afragola e il Parco Verde di Caivano), centri commerciali che nel fine settimana intasano chilometri di autostrada.
Questo non vuol dire che sia tutta colpa di Napoli: anche l’hinterland ha una parte rilevante di responsabilità, in tanta decadenza. È una responsabilità civile, che ricade in larga parte sui politici (e sui cittadini che li votano) della provincia. Chi volesse farsi un’idea del livello del dibattito politico dell’hinterland, dovrebbe fare un giro nei consigli comunali di questi comuni (molti ormai sono disponibili anche in streaming, per il divertimento di grandi e piccini). Troverebbe politicanti che nella migliore delle ipotesi non hanno argomenti, e nella peggiore stentano persino a esprimersi in italiano. Il “civismo” locale nasconde spesso solo piccoli e grandi cartelli elettorali, con legami tutt’al più regionali, con questo o quel consigliere, ma sempre più raramente con un partito o con una linea politica. Il collasso dei partiti nazionali ha prodotto, d’altronde, un disorientamento disarmante, ed è difficile trovare sul territorio degli spazi di confronto democratico (mentre i social sono sempre più inquinati da un mare di rancore e disinformazione).
Certo, c’è anche tanta gente perbene (anche nei consigli e nelle giunte comunali). Ma che ormai lascia correre tutto, perché ha rinunciato da tempo a vivere in un paese normale, e gli basta solo passarsela decentemente. Genitori di figli scappati lontano. Operai stanchi e impiegati stressati. Santi e “mariuncielli”. Nullafacenti e professionisti. Tutti che la sera se ne tornano a casa e pensano la stessa cosa: «Mi è andata bene un altro giorno in mezzo a quest’inferno». E chiudono la porta, senza sapere che dietro quella porta, sul loro silenzio, sulla sfiducia, sull’indifferenza, su quella cosa che sentono alla bocca dello stomaco, Napoli, la grande metropoli, resta in piedi. E qualcuno (la camorra, la cattiva politica, gli approfittatori di ogni risma) costruisce i propri imperi.

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