Storie di sprechi: giustizia sul banco degli imputati

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 di Simone Di Meo *

Processi senza fine. Interrogatori predisposti e poi annullati. E trasferte inutili. Da Palermo a Napoli: nei tribunali si moltiplicano i costi. Chi paga? I cittadini.

Quanto costa la giustizia?
Nell’epoca della spending review e dei tagli lineari, c’è un’isola lussureggiante e felice dove le forbici si sono arrugginite per il disuso.
E dove il formalismo della procedura fa strame del buonsenso. Un’isola abitata da una signora, bendata, che va in giro con una bilancia a due piatti. A Palermo un imprenditore finisce nella tagliola della Direzione distrettuale antimafia che lo accusa di essere un prestanome di Bernardo Provenzano. Lui – Francesco Lena, proprietario della splendida Abbazia Sant’Anastasia, resort a cinque stelle immerso nelle campagne di Castelbuono – finisce pure in galera, nel 2010, per quest’incriminazione.

CALVARIO GIUDIZIARIO. L’inchiesta non è granché solida tant’è che, nel giro di cinque anni, arrivano le assoluzioni in primo e secondo grado. Confermate in Cassazione, qualche settimana fa.
Tutto a posto, allora? La situazione non è così facile come potrebbe sembrare. Perché – in parallelo all’inchiesta principale – la procura del capoluogo siciliano dispone il sequestro del patrimonio dell’imputato. Nasce così un ulteriore procedimento che, pur essendo agganciato dal punto di vista investigativo al filone originario, segue un percorso autonomo. Il che vuol dire un nuovo calvario giudiziario per l’imprenditore, riconosciuto innocente da tre diversi collegi giudicanti, per smontare sempre le stesse accuse e ottenere la restituzione non solo del relais ma anche dei conti correnti e dei beni finiti sotto ceralacca.
I COSTI SI MOLTIPLICANO. I tempi (assai lenti) del tribunale palermitano non agevolano la definizione della vicenda, e a meno di uno sprint processuale – che difficilmente ci sarà – la storia andrà avanti per un altro bel po’. L’Abbazia Sant’Anastasia è finita nelle mani di un amministratore giudiziario e, in questi anni, ha visto ridimensionare non solo il fatturato ma anche la forza lavoro.
Tanti dipendenti sono stati costretti a lasciare il posto in attesa che il proprietario riporti, davanti a un nuovo giudice, le prove che lo hanno scagionato nel precedente processo. Duplicando così i costi dell’intera filiera giudiziaria e distraendo da altre incombenze, per un procedimento già chiuso addirittura in Cassazione, giudici, cancellieri, personale amministrativo, pubblici ministeri e forze dell’ordine.
Ma non è questo l’unico caso.

Tribunale di Napoli, un pasticcio che costa caro

Il tribunale di Napoli.

Napoli, interno del tribunale.
Il personale d’aula è indaffarato a collegare i cavi del televisore da cui parleranno due pentiti di camorra. Si chiamano Giovanni Messina e Paolo Di Grazia.
Sono stati convocati per rispondere alle domande sull’agguato in cui hanno perso la vita quattro affiliati ai clan del Nolano.
È tutto pronto, si provano i microfoni dal sito protetto. Funziona tutto.
DIETROFRONT SULL’INTERROGATORIO. Coi giudici e gli avvocati già al loro posto, il pm prende la parola e – a udienza iniziata – rinuncia ad ascoltare i due collaboratori.
Il loro interrogatorio (richiesto dal precedente sostituto procuratore titolare del fascicolo, poi passato ad altro incarico) è inutile, sostiene. Pure gli avvocati degli imputati sono – ovviamente – d’accordo. Ci siamo sbagliati, grazie lo stesso.
Il televisore si spegne. I microfoni si ammutoliscono.
Il presidente del collegio togato, Carlo Spagna, si fa ripetere per due volte il concetto per essere sicuro di aver capito.
MIGLIAIA DI EURO IN FUMO. Ascolta. E sbotta in una requisitoria di fuoco contro il pubblico ministero e i legali che hanno fatto bruciare migliaia di euro per allestire il collegamento, far spostare i pentiti, attivare le forze di polizia per la tutela e pagare la trasferta degli agenti della penitenziaria. E tutto questo per nulla.
Chi paga? Lo Stato, chiaramente.
Ma il presidente Spagna annuncia in un’aula ammutolita che trasmetterà il verbale d’udienza alla procura e alla Corte dei Conti, oltre che al consiglio dell’Ordine degli avvocati, per ravvisare eventuali danni erariali a carico del sostituto procuratori e dei penalisti.
Non si possono bruciar così i soldi pubblici. E forse per una volta la signora con la benda sarà costretta a buttare un occhio là fuori per capire com’è che vanno le cose dalle sue parti.

*(Articolo apparso su Lettera43.it- Lunedì 12 Ottobre 2015)

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