Addio a Elvio Porta, e che mai sia dimenticato.

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di Elio Goka

Pare stesse aspettando un’operazione che gli avrebbe consentito di vivere più a lungo. Elvio Porta però non ce l’ha fatta, salutando per sempre quel mondo a cui tanto ha contribuito a rendere più poetico, con la sua creatività di scrittore, di regista, di quella intelligenza estrema, indomita, lucida e malinconicamente ironica di un modo di guardare alla vita sistemandosi quasi sempre all’ultimo posto.

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La mazzetta, Giallo napoletano, Cafè Express, Mi manda Picone – e si potrebbe continuare – sono alcuni dei capolavori cinematografici, perché sono dei capolavori, scritti da Elvio Porta, sceneggiatore, regista e attore nato nel maggio del ’45, a ridosso di quel fermento secondo alcuni pigro, secondo altri attivi e fecondo, della Napoli oziosa e guascona, compassata e lungimirante, a tratti profetica, che, negli anni ’70, insieme all’irruzione di idee come La gatta Cenerentola, del maestro De Simone, ha dettato parole nuove e antiche a un teatro innovativo e di resistenza allo stesso tempo.

In quegli anni, Elvio Porta, insieme ad Armando Pugliese, firma il celebre Masaniello, spettacolo teatrale passato alla storia per la sua portata quasi rivoluzionaria. È la temperie dei Mariano Rigillo, Angela Pagano, Lucio Allocca, Lina Sastri, Tommaso Bianco e altri ancora “al servizio” degli sceneggiatori come Elvio Porta.

Il Masaniello di Porta e Pugliese ha fatto da fonte a ‘O cunto ‘e Masaniello e Madonna de lu Carmine, per poi ispirare esperienze teatrali come, per esempio, nell’occasione di quello rappresentato, a cura di Armando Punzo e Annet Henneman, il 14 luglio del 1990 nel carcere di Volterra. “Entrando in carcere ci eravamo dati una sola regola: non chiedere e non parlare del perché fossero detenuti. Una regola non rigida ma che serviva a precisare il nostro ruolo e la nostra competenza all’interno dell’Istituto senza correre il rischio di diventare degli assistenti sociali aggiunti”, scrive Armando Punzo raccontando alcuni retroscena di quel periodo di lavoro a qualcosa che ha voluto rappresentare il teatro secondo il teatro, nel puro assoluto della sua funzione primordiale.

Quelli prima e dopo il celebre ‘74 sono gli anni di film che dicono di un mondo che fa avanti e indietro sopra i treni operai delle prime ore del mattino, per bocca e per mano, mano misteriosa e senza vita, di un Nino Manfredi nei panni di un venditore di caffè, avvolto nel suo prontuario di storie inventate per dimostrare quanto sia vera e dura la sua vita. Nella fuga e nei palpiti di Caffè Express c’è la resa dei conti di chi sa che la verità è un divieto imbarazzante, un altolà imposto a chi, narcotizzato dal privilegio, ignora e non vede il disagio di chi della bugia, anche quella più brutale, deve farsi carico trasformandola in strumento di sopravvivenza. Intuizioni, sensibilità, alla Elvio Porta, capace di incantare registi come Nanni Loy, Sergio Corbucci, in grado di elevare al rango di profeti della realtà attori come Nino Manfredi, Giancarlo Giannini, Marcello Mastroianni e Ugo Tognazzi.

Non sarebbe un’esagerazione considerare Elvio Porta come un rappresentante fondamentale del cinema e del teatro napoletani. Il che, in fondo, vorrebbe dire di quelli internazionali. Cinema e teatro, oggi più che mai, avrebbero bisogno di quelli come lui. La realtà chiama da lontano e quelli come Elvio Porta sapevano leggerla molto da vicino, pure rievocando l’antico recuperabile che è più nuovo delle cose recenti. “Voi vi fissate sopra la commedia del braccio perché non volete vedere la tragedia che ci sta indietro”, come dice il venditore di caffè interpretato da Nino Manfredi. Una folla che si nasconde e che, di tanto in tanto, fa apparizione e vende vite vere tramite sortite bugiarde. Elvio Porta ha dettato le formule per accorgersene.

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