Il lato selvaggio del Rock

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Agli inizi degli anni ’80, Lou Reed rappresentava già un’avanguardia culturale (“voglio portare la sensibilità della letteratura nella musica rock”). Tutto il disordine creativo delle trasgressioni newyorkesi, l’eco rivoluzionaria delle distorsioni musicali e delle copertine provocatorie, l’inizio con i Velvet Underground e la carriera da solista, la banana disegnata da Warhol e l’immagine ambigua di Transformer, la droga libera e l’emancipazione sessuale lo accompagnavano in giro per il mondo, con la curiosità e le resistenze che quello stile di vita poteva suscitare. “Lou è la persona che ha dato dignità, poesia e una sfumatura di rock’n’roll all’eroina, alle anfetamine, all’omosessualità, al sadomasochismo, all’omicidio, alla misoginia, all’imbranataggine e al suicidio”, secondo la perfetta sintesi di Lester Bangs.

Fu così che approdò in Italia, puritana e bigotta, per un tour che toccò anche la Campania. Il concerto, dapprima previsto a Napoli, si tenne, per l’indisponibilità dello stadio San Paolo, al Partenio di Avellino in una terra che viveva di calcio e Democrazia Cristiana. Insomma, Lou Reed diventò per una sera l’antagonista di De Mita, portando in una provincia depressa, uno slancio cosmopolita, un messaggio rivoluzionario, impertinente, libertario che risuonava tra le corde delle chitarre elettriche e la sua voce roca, potente, selvaggia. Quella di Lou Reed fu come un’apparizione pagana, laica, che svanì subito dopo il concerto, lasciando ricordi e forse anche rimpianti. E la DC senza argini o avversari, anche sul piano culturale, oltre che politico.

Lou Reed tornò in Campania nel 1993, questa volta al San Paolo, con i suoi Velvet Underground, nel frattempo riuniti. Aprirono il caleidoscopico concerto degli U2, che portavano in giro per il mondo il loro Zoo Tour dalle scenografie imponenti. Tanti comprarono il biglietto solo per sentire le dieci canzoni suonate dai Velvet, gli U2 diventarono un pretesto per vedere di nuovo insieme John Cale, Moe Tucker, Sterling Morrison e, naturalmente, Lou Reed. Dieci pezzi per fa rivivere un universo che stava per scomparire, o forse era già scomparso. Non esisteva più nemmeno la DC, almeno quella governativa, annientata da Tangentopoli, le rivolte di piazza e l’imminente avvento del berlusconismo.

Lou Reed, peraltro, proprio come il suo amico Warhol, aveva un rapporto privilegiato con Napoli, da cui era affascinato per quella capacità innata dei partenopei di rendere possibile anche ciò che è impossibile, tipo ergere un castello sulla collina del Vomero. La perfetta metafora di quella che è stata la vita di Lou Reed: “Sono caduto, mi sono rialzato, sono caduto ancora. Ma sono qui”. Fino all’ultimo giorno,  quando il fegato si arrese alla malattia. Le complicazioni insorte dopo il trapianto gli furono fatali. Era pronto a rimettersi all’opera, a scrivere canzoni, a far concerti, a portare ancora in giro i suoi versi maledetti. Invece, è andato incontro al suo destino. “Domani sarò fumo” aveva detto, poi solo note attutite e lacrime silenziose.

Gianluca Spera, classe 1978. Di professione avvocato da cui trae infinita ispirazione. Scrittore per vocazione e istinto di conservazione. I suoi racconti “Nella tana del topo” e “L’ultima notte dell’anno” sono stati premiati nell’ambito del concorso “Arianna Ziccardi”. Il racconto “Nel ventre del potere” è stato pubblicato all’interno dell’antologia noir “Rosso perfetto-nero perfetto” (edita da Ippiter Edizioni). Autore del romanzo "Delitto di una notte di mezza estate" (Ad est dell'equatore)" Napoletano per affinità, elezione e adozione. Crede che le parole siano l’ultimo baluardo a difesa della libertà e dei diritti. «L'italiano non è l'italiano: è il ragionare», insegnava Sciascia. E’ giunta l’ora di recuperare linguaggio e ingegno. Prima di cadere nel fondo del pozzo dove non c’è più la verità ma solo la definitiva sottomissione alla tirannia della frivolezza.