Il mondo di Gianni Mura: un fuoriclasse che scriveva a macchina

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  • di Armando Grassitelli

Approcciarsi al libro che racchiude alcuni degli articoli di Gianni Mura, il grande giornalista di Repubblica scomparso esattamente un mese fa, rappresenta di questi tempi un ottimo esercizio di separazione dell’utile dall’inutile, del necessario dal superfluo.
Ebbene, questo libro è utile e necessario.

È utile perché racconta un mucchio di storie che, passate per le dita e la macchina da scrivere di Mura, acquistano un colore e uno spessore talvolta superiore al valore di alcune storie in sé.
E’ necessario perché lungo 300 pagine (che potevano anche essere 3000, per quel che mi riguarda) si avverte ben presente cosa volesse dire per Mura fare cultura attraverso lo sport e non solo, e diffondere parole pensate e scritte bene.

Di contro, sempre nella minima opinione dello scrivente, alberga – anzi si rafforza netta dopo la lettura- la teoria racchiusa nel titolo di quel gran libro che è “La nobile arte di misurarsi la palla” del mio amico scrittore Amleto de Silva.
Ovvero, che scrivere non è per tutti. E soprattutto, che per scrivere sia doveroso che si abbia qualcosa da dire che vada oltre, molto oltre il proprio orticello quotidiano.
Di più: per scrivere serve una storia interessante e che sia scritta bene.
Tutto il resto, e lo dico chiamando anche me direttamente in causa, è materiale buono per strappare due risate con un post sui social, e nulla di più.

Il che, per quel poco che leggo, dovrebbe imporre nell’80% almeno delle persone (diciamo scrittori, va) che hanno scritto un libro in vita loro quantomeno di non concedere il bis.

Il libro è stato diviso in sei sezioni (biciclette, incontri, cattivi pensieri, passioni, racconti, addii).
Sebbene, come è logico che sia trattandosi di una raccolta, ogni sezione abbia una propria vita propria – i “cattivi pensieri” erano il pezzo della domenica, le biciclette sono alcuni degli articoli scritti da inviato al tour de France-, si avverte nitidamente in ogni riga una onestà intellettuale, una cultura e una conoscenza della materia di cui parla e della lingua italiana oggi inarrivabile per la quasi totalità dei giornalisti italiani.
Ciò che maggiormente colpisce è la naturalezza della scrittura, quel quid in più che ha collocato Mura nell’empireo dei fuoriclasse assoluti.

Allievo prediletto di Gianni Brera, dal quale non ha per fortuna ereditato alcune eccessive asperità lessicali e alcune parole odoranti di razzismo verso il Sud di quando in quando esondavano dalle sue righe, Mura è stato figlio di più culture.

Mura era milanese, e il suo approccio alla città si esplica al meglio nell’intervista a Mariangela Melato, un bellissimo confronto tra due anime meneghine che hanno con naturalezza amato l’arte e la cultura aprendo con curiosità scevra di pregiudizi i propri confini.
Ma Mura era anche sardo, figlio di un carabiniere della provincia di Oristano; e il senso dell’appartenenza alla Sardegna trova compiutezza nei due articoli dedicati all’addio al calcio di Gianfranco Zola e all’addio, ahimè alla vita, di Fabrizio de Andrè.

A proposito di addii: struggente quello scritto all’indomani del suicidio di Agostino di Bartolomei, il grande capitano della Roma. Ne ricordava, tra mille lacrime facilmente intuibili, una proposta: quella di rendere obbligatorio l’insegnamento della storia dello sport dalle elementari, perché i bambini capissero qualche valore in più e assumessero la mentalità giusta.

Due parole ricorrono spesso leggendo questa antologia di articoli: cultura e educazione.
Mura, che odiava i social e, probabilmente per vezzo ha sempre e solo usato una macchina da scrivere, aveva una passione smodata per le parole: spesso nei suoi articoli le smontava e le ricomponeva, creando anagrammi, acrostici, calembour e scioglilingua – il che, a parere non solo dello scrivente, lo rende molto più affine a Beppe Viola che non a Brera.
Ne deriva come naturale corollario l’invenzione di soprannomi rimasti nell’immaginario e nella cultura sportiva nazionale (valga per tutti il “pantadattilo” coniato per l’amato Marco Pantani).
Anche Mura ebbe l’onore di un soprannome: glielo diede, e lo ricorda con molto amore, Ezio Graziani, autista della Gazzetta  allorquando il giovane stagista 19 enne dal calcio fu dirottato d’urgenza al seguito del Giro d’Italia del 1965.
Quel soprannome, Lontrina, derivante dall’appetito non modesto, si aggancia non a caso ad una delle sue grandi passioni, la gastronomia.

Mura aveva un culto per la cucina, che fosse quella stellata o quella pane e salame. Con la moglie Paola ha curato per 30 anni una rubrica di enogastronomia sul Venerdi, Mangia e bevi, a tavola nascono molte delle sue interviste o dei suoi ricordi migliori (Guccini, Veronelli, ma anche l’elegia della bistecca alla fiorentina).

E una tavola imbandita con vino, pane e salame fu la scenografia di una imperdibile edizione del Processo del lunedi di Rai 3, voluta da Marino Bartoletti – allora direttore di RaiSport – e condotta con garbo e competenza da Gigi Garanzini spalleggiato da Gianni Mura, che durante la trasmissione affettava, versava vino e sciorinava storie con una leggerezza e ironia senza pari.

Torno, per chiudere, a quanto espresso all’inizio, ovvero sulla necessità di separare l’utile dall’inutile.
Due gli auspici. Il primo, dopo avere reso giusto riconoscimento al grande lavoro dei curatori Giuseppe Smorto e Angelo Carotenuto, è che da quella miniera che è l’archivio di Gianni Mura Repubblica sappia trarne altre gemme: non sarà difficile.

Dall’altro, che chi ha velleità letterarie e giornalistiche legga questo libro (come quelli di Gianni Clerici, giusto per citare uno dei pochi fuoriclasse del giornalismo ancora viventi), e capisca come la costruzione di un pezzo, di un racconto, di un libro, richiede tanta cultura e tanta umiltà.
Da par mio, dopo avere letto il libro, ho molta più voglia di tornare a scuola e leggere che non di scrivere.
Ps a proposito, lo scrisse Mura: Maradona è meglio di Pelè.

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