Il pericolo di un’ignoranza che passa per tutela

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di Elio Goka – Immagine di Enki Bilal

È ne Il libro dell’inquietudine che Fernando Pessoa confessa che a meravigliarlo più della stupidità è “l’intelligenza che c’è in questa stupidità”. Se nell’opera citata lo scrittore portoghese rivolge il suo intimo osservatorio a un “panorama di vite”, qui sovviene di orientarsi verso il panorama delle considerazioni, ampliando quest’ultime in un insieme che raccolga reazioni, idee, osservazioni e tutto quanto possa rientrare nello spazio del ragionamento.

Valga pure per il ragionamento destinato a durare poco. Anche quello conta.Da molto tempo, almeno da quando l’elaborazione della letteratura giornalistica ha ceduto definitivamente al mezzo di diffusione, si assiste all’azione di un grande mandato di cattura che su vasta scala attira l’attenzione dei lettori e degli utenti dei social network al tempo stesso. Il doppio fondo del supporto mediatico online e della più grande rassegna stampa in rete, i social, agisce spesso senza distinguere il valore di quello che viene posto all’attenzione. I criteri sono di altra natura.

L’ondata di idiozie che sistematicamente vengono accolte – perché discuterne, nel bene o nel male, significa comunque accogliere – e giustificate col calcolo del farsi pubblicità o della norma, molto ambigua, che teme e scongiura la censura (la censura mai ha fatto paura alle intelligenze autentiche), non può più godere di questa velata benevolenza di massa. Chi scrive o afferma un’idiozia va trattato come un maldestro divulgatore di idiozie. Non basta e non è più sufficiente la risata di scherno e di indifferenza. Occorre nuovamente la severità della crisi.

Crisi in senso greco, di scelta. Era questo che facevano gli intellettuali di riferimento di un tempo ed è questo che avrebbero il dovere di fare gli intellettuali di oggi. Smettere il ruolo di riferimento sarebbe già un passo incoraggiante.

Non va più tutelato il diritto all’espressione del concetto fine a se stesso, ma il dovere alla dignità del concetto; perché è anche da quest’ultimo dovere che dipende la solidità di quel diritto. Come farlo? Serve l’umiltà del silenzio e dell’ascolto, servono lo studio, l’osservazione; serve tutto quanto richieda il sacrificio di risparmiarsi da questo intendimento mercantile delle idee, dalla tentazione di questa destrezza dell’opinione. Perché è questa abilità che ha condotto a questo processo di commistione in cui la contestazione è vittima di una sua declinazione equivocata e in malafede, laddove il contestabile veste i panni del contestatore e l’effetto le toglie credibilità.

Opporsi a questa percezione consenziente e accondiscendente, che si crede al di sopra solo perché commisera l’inganno, ma senza ostacolarlo, sarebbe la prima strada per una nuova – o forse sarebbe il caso di definirla rinnovata – forma di militanza del pensiero distante da tensioni retoriche. Una sensibilità priva di adesioni identitarie e contestuali, che non occulti più la sua opaca pigrizia dietro l’angolo buio dell’assenso a tutto, ma che si adoperi nuovamente per una severa e forte distinzione. Non più il tutto garantito a tutto. Questa ebbrezza insana e superficiale ha garantito soltanto la peggiore delle omologazioni. Un oblio che stringe leve dentro un sistema di forze che è riuscito a pervadere anche i luoghi e gli spazi umani che un tempo si sarebbero battuti per scongiurarlo. Su tutte, la scuola.

Non è più tempo di pensare in fretta e di correre dietro un senso risoluto e pragmatico del pensiero. C’è qualcosa di indispensabile che non vuole tempo, che non conosce altra misura se non la contemplazione. A proposito de Il libro dell’inquietudine, è proprio lì che Pessoa scrive che pure “Il cuore, se potesse pensare, si fermerebbe”.

 

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