L’INFERNO IN TERRA VISTO DA McCURRY

Condividi su

 

La capacità di osservazione è l’essenza della fotografia“. Una delle didascalie della mostra “Senza confini” (al Pan di via dei Mille fino al 12 febbraio 2017) di Steve McCurry sintetizza in maniera formidabile tutta la tecnica del grande fotografico americano. Gli scatti testimoniano il talento indiscusso di McCurry nel raccontare la storia mondiale più recente attraverso l’obiettivo della sua macchina fotografica. Dalla guerra in Afganistan del 1979, quando i mujaheddin si ribellarono all’invasione russa, passando per il crollo delle Twin Towers fino alle catastrofiche conseguenze dello tsunami in Giappone, McCurry ha osservato l’inferno sulla terra e ce l’ha restituito sotto forma di immagini terribili che storicizzano gli istanti catturati, ne fanno sguardo severo e curioso, a volte implacabile e, all’occorrenza, anche amaramente sarcastico. Il suo scatto più famoso, la “Ragazza afgana” (Sharbat Gula) con il suo sguardo intenso che l’ha resa quasi una Gioconda moderna, immortalata sia nel 1984 (immagine diventata icona grazie alla celebre copertina del “National Geographic) che nel 2002, fa parte del vivace e ipnotico allestimento realizzato al Pan.

_DSC9650, Surma Tribe, Omo Valley, Ethiopia, 8/2012, BIO-10515 retouched_Skylar Nikpour

Tra l’altro, nemmeno a farlo apposta, la vicenda della donna afgana è tornata di stretta attualità in questo periodo, in quanto la Sharbat è stata arrestata in Pakistan con l’accusa di aver falsificato alcuni documenti che le consentivano di ricevere assistenza nel Paese posto a confine con l’Afganistan. In tutto, ha trascorso nove giorni in carcere, prima di essere rilasciata. Ora, Sharbat Gula è tornata a casa, cioè in quel Paese inospitale dal quale sta cercando di fuggire.

E McCurry proprio questo riesce a cogliere: la sofferenza di uomini, donne, ma anche bambini, gente comune. Persone costrette molto spesso a rinunciare alla libertà, alla dignità, al benessere, persino alla vita, in un mondo di contraddizioni e ingiustizie sottolineate in foto che ritraggono la miseria, la fame, la disperazione, la crudeltà, le distorsioni di un’umanità ferita a morte.

Negli spazi del Pan, le foto sono disposte in modo da creare sovrapposizioni, accostamenti, collegamenti, attraverso un percorso obliquo, volutamente disordinato. Afganistan, Manhattan, Giappone distrutto dalla catastrofe tsunami: c’è un filo sottile che lega e collega tutto, che inchioda l’Occidente opulento a guardare verso il resto dell’universo, a rimuovere distrazione e indifferenza, fermo restando che nessuno è immune alle disgrazie.stevemccurryafghangirl

McCurry ci ricorda che, in ogni angolo del pianeta, ci sono storie da raccontare, tragedie che non possono essere rimosse o silenziate, infanzie violate, occhi e sguardi non più innocenti che reclamano attenzione, esistenze clandestine che pretendono di riemergere dall’oscurità e un’umanità randagia che cerca un approdo, un porto sicuro, una città al riparo dalle bombe o dai colpi di mitra. Pezzi di vita vissuta e sofferta catturati nell’attimo più drammatico, a cui il fotografo statunitense ha conferito cittadinanza, restituito colore, anche armonia, estrapolandoli dall’ombra e dall’oblio. Le foto di McCurry sono immagini quasi letterarie, che raccontano storie autentiche ambientate, per lo più, ai confini – se non ai margini – del mondo. Storie disumane che finalmente possono essere mostrate con stupore e meraviglia, pur nella loro sconvolgente tragicità.

Gianluca Spera, classe 1978. Di professione avvocato da cui trae infinita ispirazione. Scrittore per vocazione e istinto di conservazione. I suoi racconti “Nella tana del topo” e “L’ultima notte dell’anno” sono stati premiati nell’ambito del concorso “Arianna Ziccardi”. Il racconto “Nel ventre del potere” è stato pubblicato all’interno dell’antologia noir “Rosso perfetto-nero perfetto” (edita da Ippiter Edizioni). Autore del romanzo "Delitto di una notte di mezza estate" (Ad est dell'equatore)" Napoletano per affinità, elezione e adozione. Crede che le parole siano l’ultimo baluardo a difesa della libertà e dei diritti. «L'italiano non è l'italiano: è il ragionare», insegnava Sciascia. E’ giunta l’ora di recuperare linguaggio e ingegno. Prima di cadere nel fondo del pozzo dove non c’è più la verità ma solo la definitiva sottomissione alla tirannia della frivolezza.