Cara classe operaia, il paradiso è stato venduto

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di Elio Goka

 

Cos’è, cos’è

Che fa andare la filanda

È chiara la faccenda

Son quelle come me

E c’è, e c’è

Che ci lascio sul telaio

Le lacrime del guaio

Di aver amato te

 

Vito Pallavicini, La filanda, versione italiana dall’originale E’ ou nao è di Amália Rodrigues

Quando Elio Petri uscì con La classe operaia va in paradiso, era il 1971, dovette affrontare le polemiche e le reazioni di disapprovazione di gran parte degli ambienti di sinistra. Movimenti studenteschi, sindacalisti, dirigenti del PCI e altri esponenti non gradirono la pellicola pensata e scritta con Ugo Pirro.

Il regista romano non ci si mise molto a risolvere la faccenda, affermando che il suo film non riguardava gli ambienti che lo avevano criticato, ma che era semplicemente un’opera sulla classe operaia. Mezzo secolo fa, e non lo scopriamo adesso, Petri si era rivolto alla parte giusta. Tuttavia, quella parte non se n’era accorta. I diretti interessati si videro estromessi dal gioco delle parti. Del resto, il metodo era e resta quello. La necessità è un dramma risolto in assenza e a sfavore dei diretti interessati. Il dopoguerra ha mandato in scena un’umanità sfavorita in contumacia.

La morte di Luana D’Orazio è la tragedia privata di una persona e di chi gli ha voluto bene. Tutto il resto è apparizione. Come un articolo apparso sul Corriere della Sera pochi giorni fa che ha rievocato i segni e i significati del film di Elio Petri. La conversione dello stacanovista Lulù adesso trova l’ennesima verifica fallimentare nel fatto di cronaca descritto e posto secondo le oscenità di un protocollo giornalistico che oscilla tra un Eros et Thanatos pruriginoso e la perizia morale secondo cui la colpa della Macchina non è processabile. La Macchina è sacra, messa lì, centrica e indisturbata a farsi luogo delle ragioni di una grande macelleria su vasta scala.

L’articolo in questione, secondo la testimonianza di altre operaie, evidenzia tutta la magnifica contraddizione per cui la Macchina è un organismo perfetto e infallibile, e che l’intorno umano, anche nella fatica e nella stanchezza, deve rispettarne l’infallibilità coincidendo con essa.

“Non è un lavoro semplice, bisogna stare molto attenti, ma io lo faccio da vent’anni con passione.”

“Lavoro qui da 25 anni, per lavorare a un orditoio ci vuole tanta attenzione e tanta accortezza”

“A volte siamo troppo sicuri dei gesti che si fanno, ma con le adeguate protezioni si riesce a lavorare bene e in sicurezza. Un lavoro sfiancante? Per me no, a me dà soddisfazione, può sembrare un lavoro ripetitivo, ma lavoriamo a tanti tipi di filati e ci sono cose diverse da fare.”

E il redattore dell’articolo sottolinea le condizioni in cui lavorano queste persone: “Eppure il rumore non dà tregua, si sentono i rulli che girano, il cigolio delle macchine. Per parlarsi bisogna alzare la voce”. Un’aggiunta che semanticamente conduce a una paradossale contraddizione nella costruzione di un servizio giornalistico che pende verso un’ambigua giustificazione di fondo.

Poi, l’articolo prosegue riportando la voce di un altro operaio

“Se sei stanco, non puoi lavorare a un orditoio, se non sei al cento per cento, è meglio se non ti avvicini ai macchinari. È un lavoro duro, come tutti i lavori del resto, ci vuole molta attenzione. Noi abbiamo tutte le sicurezze, tra cui le fotocellule che fermano il macchinario se un operaio si avvicina troppo, ma le attenzioni non bastano mai, bisogna essere sempre molto concentrati, non si deve mai abbassare la guardia”

Ne La classe operaia va in paradiso Lulù all’inizio si rende inviso e insopportabile ai suoi colleghi perché invece di unirsi alle proteste contro le condizioni di lavoro, predica una dottrina del lavoro votata a uno stacanovismo senza sosta, tutt’altro che afflitto, ma motivato ad aspirare a maggiori guadagni, di fatto comunque miseri e irrilevanti davanti alle istanze di una classe di lavoratori sfruttati e umiliati. Solo la perdita di un dito durante un’operazione di routine lo condurrà a cambiare idea e a comprendere la reale condizione in cui si trova la vita di un operaio.

“A volte siamo troppo sicuri dei gesti che si fanno, ma con le adeguate protezioni si riesce a lavorare bene e in sicurezza. Un lavoro sfiancante? Per me no, a me dà soddisfazione, può sembrare un lavoro ripetitivo, ma lavoriamo a tanti tipi di filati e ci sono cose diverse da fare”. Poche righe di questa testimonianza che, letta e riletta, dice di qualcosa che si ripete quotidianamente. Le traduzioni della modernità hanno soltanto rielaborato le forme di una schiavitù bianca, che stavolta non ha a che fare con le tratte barbaresche tra il XVI e il XIX secolo, ma presenta al terzo millennio la revisione politica e civile di un declino che non ha mai smesso di uccidere e sottomettere sin dall’alba della prima rivoluzione industriale. Il passaggio mentale, poi, è stato determinante. Adesso lo troviamo nelle leggi, nei regolamenti, persino in chi dovrebbe opporsi a tutto questo. Fino alle labbra di quei diretti interessati. L’inferno è in terra e povero chi ci nasce o ci finisce dentro. La divinità salvifica vi dimora, perfettamente funzionante, a dare risposte a nessuno sa quali domande. E ne La classe operaia va in paradiso, a un certo punto, c’è una scena in cui gli altoparlanti della fabbrica mandano in filodiffusione un nastro che dice così:

“Lavoratori, buongiorno. La direzione aziendale vi augura buon lavoro. Nel vostro interesse, trattate la macchina che vi è stata affidata con amore. Badate alla sua manutenzione. Le misure di sicurezza suggerite dall’azienda garantiscono la vostra incolumità. La vostra salute dipende dal vostro rapporto con la macchina. Rispettate le sue esigenze, e non dimenticate che macchina più attenzione uguale produzione. Buon lavoro.”

Proprio nel 1971 esce il singolo cantato da Milva, versione italiana di una canzone di Amália Rodrigues, con cui la cantante vinse la Gondola d’oro alla Mostra internazionale di musica leggera di Venezia nel 1972. Una delle strofe finali dice così:

Perché, perché

Nella mente del padrone

Ha il cuore di cotone

La gente come me

A questo punto, a distanza di mezzo secolo, verrebbe da aggiungere che il cuore è di cotone non soltanto secondo il padrone.

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