Sergio Solli e la malinconia della maestria

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di Elio Goka

Maestro? E addò sta?

Come, dove sta? (timidamente) Siete voi.

Ma vide ‘nu poco, viene ‘cca e famme ‘o piacere.

Se viene di chiamarli così, ci sarà una ragione. Almeno per chi sente di farlo perché ci crede, alla maestria. Che poi non è una cosa che si attribuisce per onori e titoli. Il fraintendimento sarebbe lungo da affrontare. Come i fattarielli cuntati “fuori” da qualche parte. Perché poi a Napoli s’impara che la parola fuori può contenere un dentro più intimo del luogo più chiuso e riparato di questo mondo. Il fuori può significare la possibilità di un’apertura, ma sempre dal lato confidenziale delle cose. Per le più svariate ragioni. Come una lettera aperta, un’istanza diffusa pubblicamente, una protesta. Ma sempre proveniente da una fonte sensibile e delicata di uno stato dei fatti che va “cuntato”, ma trattato coi guanti bianchi.

 

Insomma, tornando alla maestria, Sergio Solli pare che dovette averci a che fare quando non immaginava quello che lo avrebbe aspettato dopo. Forse ci sperava, forse la mostruosità solenne e altissima della maestria dovette pararsi davanti ai suoi occhi quando s’incontrò con l’uomo che in poco tempo lo avrebbe scritturato per il suo primo spettacolo al Teatro della Pergola di Firenze. Quell’uomo si chiamava Eduardo De Filippo. E, inevitabilmente, sarebbe stato l’inizio per un nuovo attore per cui il tempo e una carriera discreta ed essenziale avrebbero decretato tutto il merito che lui stesso, con nobilissima umiltà, non avrebbe mai reclamato, fino all’ultimo dei suoi giorni.

Su Sergio Solli si è posato un tempo lungo e provato, a misurargli addosso un abito di scena vissuto e giunto fino alle rughe del volto per disegnare una maschera di vispa e amara vivacità. Tutto il profondo in direzione della linea crepuscolare e saggiamente rassegnata della vita. Sagomato dalla mano di un disegnatore per la sua figura elegante e distinta. Un attore dell’adeguatezza come ce ne sono stati pochi. Tra la linea del caratterista e quella sottile dell’inventore di scena. Sì, perché ci sono attori che non si destreggiano soltanto con l’abilità della ripetizione, ma conoscono a fondo la formula del movimento espressivo. In fondo, pare, con la ragione di esserci pure nati.

Che fosse al cinema o in teatro, che fosse la leggerezza prudente di alcuni dei suoi personaggi più celebri, che fosse la durezza di altri, oppure l’ambiguità di alcuni di quelli interpretati nelle commedie di Eduardo – Ciccillo “Capa d’angelo” de Le voci di dentro e Lanciano de Il contratto sono due interpretazioni capolavoro – Sergio Solli seguitava e precedeva le battute con la perfezione del tempo. I suoi occhi mettevano in moto il meccanismo che setaccia la scena e bracca il compagno d’arte senza smarrire per un istante il ritmo dell’azione. È il passo dell’attore che non smette il ruolo nemmeno in assenza di battuta. Del resto, il teatro è una cosa che prosegue pure, soprattutto, a sipario chiuso.

Come quello che si è chiuso, stavolta davvero, davanti a Sergio Solli. Spero che adesso, con un po’ di fantasia – rimane solo quella – ci sia qualcuno che glielo ripeta, fino a convincerlo, che della maestria fanno parte quelli come lui. E che amara sottrazione ogni volta che quella specie di malinconia, che più del lutto vale come tenerezza, sussurra che c’è stata una vita che ha saputo andare oltre l’assegnazione del merito per qualcosa che col tempo sarà messo a rischio dall’oblio di un altro, di tempo. Non chiamateli maestri, ma trattateli come tali.

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