Al 21esimo del secondo tempo, un Millennial finalmente realizzò

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di Mario Aiello

Da ragazzo, come tanti “Millennials”, non avevo sogni ma solide idee confuse su ogni aspetto dello scibile umano: rapporti interpersonali, cultura, religione, musica, politica, diritti civili, e addirittura sport. Idee confuse, sì, eppure lo erano molto meno di quanto non lo siano adesso. Sfido chiunque. C’era comunque una sorta di grandezza nell’incoscienza di quel non-pensiero.

Ci ha piegato l’unica macroarea che non avremmo mai pensato di dover temere: la società. Argomento che non verrà approfondito debitamente e correttamente in questa sessione di scazzo (il)letterario. Se cerchi risposte, posso consigliare l’oracolo di Melfi o un più attuale pellegrinaggio a Fatima. Dipende dalle aspettative.

La domanda sorge spontanea: chi sono i Millennials? La risposta è, non lo so. Oddio, lo so, ma lo spiego dopo e non è grave in senso assoluto non saperlo. Quindi rilassati, per tutto il resto c’è Google in combinata con la massima socratica del “so di non sapere”. Doveroso. Le basi.

Dunque, mi chiedo come mai in una società a tratti intangibile come quella in cui viviamo, tra il serio e il faceto, il sacro e il profano, una tragedia in mare e due reel sui social network, tutto ciò non sia notizia di sostanziale interesse collettivo, dato che si ripercuote ancora e ancora, con terrificante costanza, nel quotidiano. Almeno ci si aspetterebbe un qualsivoglia podcast di successo che ogni tre per due ne parli con invitati discutibili, o delle belle sessioni su Twitch in salsa gran galà de noantri, tra una leccata di orecchie finte e una maratona di Fortnite.

Nominare giornali, telegiornali o trasmissioni di approfondimento, non avrebbe alcun senso compiuto. Può darsi la faccenda abbia fatto capolino su qualche mensile decaduto, ma non oserei scommetterci lo stipendio. D’altronde, con tre o quattro pezzi da cinquanta ci campi male minimo due settimane.

Essere Millennial, una specie di “adesso ero”, che è sì una fatality alla sintattica italiana di bassissima lega, eppure mai cotanta affermazione sarà destinata a far riflettere (meglio) coloro che ne decriptano il significato intrinseco. Condizione fumettistica di qualcosa che inesorabilmente siamo, ricoperta da tetri cumulonembi del passato che fummo. Elio e le storie tese ci andarono molto vicini con “Nubi di ieri sul nostro domani odierno”, ma lì si parla per lo più di abitudini e dirigibili marroni. Adesso ero, “come suona male da Dio”. Purtroppo la citazione non è mia, il genio che l’ha intrepidamente partorita è un ignoto pensatore moderno, carpito tra una chiacchiera e l’altra in un ufficio di periferia. Mentre per la seconda rimando a “Parco Sempione”, sempre degli Elii.

Certi crismi di confusione sono oramai introiettati e saldati a fuoco nelle più intime coscienze di una fetta di popolazione, i Millennials appunto. Chiaro, non tutti e non solo loro. Porzione consistente, ma non abbastanza da fare tara nel peso specifico delle priorità. Un campione di esseri umani destinato ad estinguersi, disallineando valori di dubbia moralità e disvalori di certificata turpitudine. Quando non basta il “di tutta l’erba un fascio” e si è costretti a valutazioni secondo stime a corpo molto poco permissive e al ribasso. Chi, come, dove, quando e perché sono fattori che latitano. A noi basta il boh.

Ricordo che a quindici o sedici anni ne andavo fiero. Non di essere un Millanial, non avevo nemmeno idea che esistesse un nome per una generazione. Ero banalmente orgoglioso di non capire un’emerita ceppa e non voler approfondire nulla, in quanto indottrinato metafisicamente al niente, inteso quale vuoto pneumatico della coscienza. Ignoravo in modo puerile il punto della situazione che avrebbe preso forma nel momento in cui avrei poi lasciato alle spalle quel fittizio presente perpetuo e volto lo sguardo al prossimo futuro. Futuro prossimo che a sua volta sarebbe divenuto un più laconico futuro anteriore. Quel che sarà stato che di anteriore possiede ben poco, vantando fantagrueliche quantità di deteriore. Mi voglio rovinare signori!

La faccenda sarebbe drasticamente peggiorata col tempo e nessuno all’epoca l’avrebbe immaginato, forse. La mancanza di obiettivi tangibili, oltre le granitiche disillusioni e le carrettate di immeritati schiaffi morali provenienti pressoché da ovunque, paiono essere i tormenti maggiori della generazione Y. Cioè di quegli stronzi come me nati tra il 1980 e il 1996. Ecco che significa Millennials. Ma di tutto ciò ce ne fregheremo altamente, ragionando sui massimi sistemi dei dettagli superflui, la nostra comfort-zone per antonomasia. Il vero problema è un altro: ma che razza di nome è “generazione Y”? Ma che squallore è? Perché dopo tutte le nefandezze pure il nome brutto?

Ho la vaga sensazione che sia la Y a portare sfiga. Y che in inglese si pronuncia “why”, cioè “perché?”. Gli anglofoni, beati loro, distinguono: non quei perché che si antepongono alle risposte, no, ma quei perché che son tutta domanda. Come quelli ripetuti continuamente dai bambini e che sfracantano l’anima: perché? perché? perché? Oh! E  basta! Chiedi ai nonni, oppure aspetta tanto da poterlo chiedere ai tuoi stessi figli il perché delle cose.

Generazione Y, destinata a non poter raggiungere il carisma immanente della precedente, la X, che già fa tendenza così. X. Stop. Applausi, stima, me cojoni, amen.
Contemporaneamente una Y totalmente sconnessa dagli schemi della successiva Z, che oggi struttura buona parte di esistenza secondo la propria matrice di illogicità. Non so, fa comunque figo no? Pure se “noi” guardiamo questi successori come una massa di rintronati che misurano la vita in base al fatto se le cose siano instagrammabili o meno. E invece hanno comunque ragione loro. Io ho memoria, attuale e fattuale, di gente che invece misura la vita col denaro. Subumani per cui tutto è moneta, ma la moneta è tutto ciò che hanno. Meglio il filtro dei primi, ascoltate me. Molto meglio.

A saperlo a priori che essere uno tra milioni nati negli anni ottanta o giù di lì è, più che una condanna a morte, una condanna a vita, sarei passato sull’altra sponda, cioè, i Baby Boomer. Quelli che hanno vissuto nella bambagia ma nonostante questo si lamentano e rompono i coglioni comunque a tutti. E saranno presumibilmente gli ultimi a percepire la pensione. O meglio, una previdenza sociale di anzianità con dei limiti bassi di lontana dignità. Io, ad esempio, la pensione non la vedrò nemmeno se campassi novant’anni. Per dire.

Personalmente, in modo letterale, ritengo che il dramma sia nella difficoltà di riconoscere certi sentimenti e viverli. I Millennials, non tutti e non solo loro, ripeto, sono persone che si sono inaridite. Perché come dice Paolo Crepet, senza passioni non si può vivere. Più o meno. Ora, tralasciamo il fatto che per un Millennial sentire la dura verità dalla bocca di Paolo Crepet è un po’ come essere Dracula e venire preso a palettate di frassino in petto, subissato di sputi all’aglio ricevuti dai contadini mentre cantano il Padre Nostro a squarciagola, ricoperti da rosari benedetti di Lourdes a mezzogiorno in Piazza San Pietro. Volevo dire Piazza Garibaldi, ma vabbè.

Non siamo capaci di mettere in giusto equilibrio l’io razionale con quello emotivo. Per questa ragione non possiamo discernere in modo corretto tra il tutto e il niente. E Paolo Crepet, per quanto sia buono e giusto, noi, non lo possiamo ascoltare. Altrimenti son lacrime. Molte lacrime. Amarissime.

Parafrasi infinita per terminare con una conclusione squisitamente soggettiva. Tra le poche cose che desideravo da adolescente, la più ricorrente e potente era quella di diventare una rock star. Chi non l’ha voluto almeno una volta? Dai. Ecco, non sono diventato una rock star, ma la musica mi ha accolto nel suo grembo, uno tra tanti con il walkman sempre appresso prima, e con il lettore CD poi. Le cuffiette di ricambio non mancavano mai, come le imprecazioni a colori per le batterie che tradivano peggio di un Higuain in bianco e nero. La musica è stata ed è tutt’ora l’unico veicolo per incanalare le emozioni. Perché magari ci siamo inariditi, ma restiamo sensibili. Chi con l’arte, chi con la scrittura, chi con altre forme di emancipazione ha trovato la propria valvola di sfogo. Per quanto triste e riduttivo sia l’uso imposto del termine “sfogo”.

Ci è mancata, forse, una guida. Tra tutti quei capitani d’industria autoproclamati non si è visto un solo comandante che sapesse davvero come navigare nel mare magno della nostra stessa inconcludenza. Inconcludenza ereditata, sia chiaro, assieme a tutta una sfilza di handicap che avremmo serenamente evitato. Si può guardare al futuro… ma che ne sanno i duemila?

Mi chiamo Mario Aiello e sono un giornalista pubblicista. "Musicante" e "scribacchino" per passione, perennemente soggiogato dal richamo dell'arte in senso lato. Da diversi anni scrivo articoli di approfondimento nel campo degli spettacoli, della musica e della cultura più in generale. L'altra faccia della medaglia è invece dedita all'analisi politica, oltre che alla cronaca di attualità e costume. Insomma, un pastrocchio.